La domanda che ci si potrebbe preliminarmente porre su un piano generale è come legittimare la mia presenza da filologo classico (non sono un medico) all’interno di un ambito in apparenza appannaggio unicamente della scienza e della sua storia, medica nel caso specifico.
Il mio incontro con i consulti medici del Sei-Settecento si può considerare fortuito: all’inizio del nostro secolo entrai in contatto con alcuni filosofi e storici della scienza che si apprestavano a dare vita al progetto dell’Edizione Nazionale degli scritti di Antonio Vallisneri (1661-1730), medico e scienziato patavino originario di Reggio Emilia. Mi fu proposto di cominciare a pubblicare i suoi consulti medici e accettai la sfida. Beneficiando del sostegno del Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica (FNS) ho portato a compimento due volumi (Vallisneri, 2006; 2011). Ho condotto a pubblicazione nel 2022 un terzo volume di consulti che ruotano attorno al medico perugino Ludovico Pacino Viti (1662-1732).
Per rispondere all’interrogativo di partenza conviene innanzitutto spiegare brevemente cosa sia un consulto medico dell’epoca. Si tratta di lettere e biglietti, più o meno estesi, che si scambiavano i medici del passato per chiedere o per dare un consiglio terapeutico. In latino si chiamano appunto consilia. Comincia da qui a delinearsi una prima risposta: siccome in toto o in parte considerevole i consulti sono scritti in latino, c’è bisogno dell’intervento di qualcuno che abbia dimestichezza non solo con il latino, ma anche con il greco che sovente si cela dietro il testo latino. I medici dell’epoca potevano scrivere sia in latino sia in italiano: non è sempre agevole stabilire da che cosa dipendesse la scelta occasionale della lingua. A partire dal Settecento l’italiano comincia ad accrescere progressivamente il proprio peso: la corrispondenza con l’estero e con le accademie straniere (Royal Society, Academia Naturae Curiosorum) si articolava esclusivamente in latino.
Date queste premesse il filologo classico che tratta consulti medici non compie un’invasione di campo, non si preoccupa in primis di dare un giudizio sulla qualità delle diagnosi e dei rimedi correnti a quell’epoca, ma mira a stabilire il testo. Si tratta cioè di trascrivere il testo latino e italiano ripulendolo da eventuali errori di scrittura o dei copisti, o del medico stesso (talora anche del testo a stampa), riportando in apparato critico le varianti che scaturiscono dalle minute (quando fortunatamente esistono), oppure dal confronto tra il manoscritto e le eventuali edizioni a stampa dell’epoca.
Biblioteca Comunale Augusta di Perugia, ms. 1797, c. 435r: minuta di Antonio Vallisneri per consulto pubblicato in A. Vallisneri 2011, pp. 413-415
La necessità del latino non termina qui. Occorre pensare che, sia per i consulti in latino, sia per quelli in italiano, le fonti di riferimento sono in latino, o perché traduzioni degli originali greci, ad esempio di Ippocrate e di Galeno, o perché tutta la manualistica e la trattatistica medica sino alla fine del Seicento è in latino. Inoltre, uno dei compiti principali per chi pubblica consulti medici del passato è (o dovrebbe essere) la ricerca delle fonti, sia esplicite, sia nascoste. Occorre cioè ricostruire da dove provenga quella citazione, letterale o meno, fornita dal medico scrivente con o senza l’indicazione della fonte, oppure a chi risalga quel determinato contesto o quell’espressione solo in apparenza attribuibile all’estensore del consulto, mentre invece deriva da una fonte che non viene citata ma che appartiene alla cultura del medico consulente. Bisogna leggere e rileggere il testo che si viene man mano trascrivendo, sottoponendolo a una serie serrata di incroci. Si scopre così che lo scrivente non afferma nulla per caso, ma opera delle scelte di riferimento che stanno nella sua memoria o in libri che aveva davanti a sé in quel momento.
c. 434bis r: minuta del biglietto aggiuntivo per il medesimo consulto, ed. 2011, pp. 415-416
È come riprendere il medico all’opera nel momento in cui sta pensando e scrivendo. È straordinario constatare come certe risposte complesse siano state elaborate in frammenti di tempo residui, nelle pause tra una lezione accademica e l’altra, oppure conclusi in quel punto perché la posta sarebbe partita di lì a poco. Il medico di prima “sfera” (noi diremmo di primo “rango”) aveva un’attività molteplice durante la sua giornata e doveva rispondere a una miriade (sovente definita un “flagello”) di consulti, eppure è stupefacente l’ampia architettura di parecchie richieste e di molti pareri inviati. Ciò è dovuto principalmente alla vasta cultura di base del medico di quell’epoca, formatosi non solo sui classici della medicina tradizionale, ma anche su quelli della letteratura antica. È frequente trovare nei consulti citazioni poetiche (Virgilio, Ovidio), ma anche bibliche a sostegno dell’indirizzo terapeutico da seguire.
Emerge dai consulti l’intima unità tra cultura umanistica e scientifica che non discordano e non si escludono tra di loro, ma vanno anzi di pari passo verso il fine comune di interpretare a fondo il paziente per farlo uscire dal recinto della malattia. Si scopre che la tradizione ippocratica e galenica (col concorso di quella araba) è fluita ininterrotta sino al diciottesimo secolo. Si tratta di un modello che oggi sembra ormai tramontato, ma è invece ancora essenziale chiedersi cosa abbia la medicina di oggi guadagnato nel corso del tempo, ma anche cosa abbia perduto a danno del paziente e del suo medico. Senza il recupero di una dimensione non solo umana, ma anche “umanistica” del percorso terapeutico la via della guarigione è ancor più irta di ostacoli e di insidie. Il profilo ideale per la totale comprensione storica dei consulti e della storia medica consisterebbe nella congiunzione del filologo col medico, ma sembra un’alchimia assai difficile da conseguire da parte di una singola persona. Finora l’unico esempio di collaborazione formale tra un filologo classico e un medico è quella stabilita, anche se in modo parziale, tra il sottoscritto e il Dott. Alessandro Menin per la pubblicazione (2022) dei consulti summenzionati.
prima e ultima di copertina dei Consulti di L.P. Viti, ed. 2022 (cit. supra)
Quale società emerge dalla rete epistolare dei consulti? Un consulto, nella sua struttura, è sovente modellato in funzione del destinatario. Questi, a sua volta, non è quasi mai il paziente in persona, bensì il medico che ha richiesto il parere o un personaggio di rango medio-alto che si fa patrono del paziente: il medico che risponde si rivolge al suo collega ma nella conclusione si professa servitore sia del paziente sia del suo patrono. Ciò contribuisce al prestigio sociale del medico che emette un parere, talora consigliando una nuova cura, talaltra corroborando quella già in atto, sempre ossequiando l’operato del collega distante da lui ma vicino al paziente. Emerge dai consulti un brulicare di nobili, di cavalieri, di alti prelati, di governatori, di nobili donne fertili e infertili ma entrambe sfortunate in quella fase della loro vita (sterilità, aborti, maternità che non si rinnovano: ma anche l’impotenza maschile è ben documentata), in una varietà di malattie la cui tipologia e frequenza sarebbe interessante confrontare con quelle dei nostri giorni. Tuttavia, anche gli strati più umili sono presenti nei consulti: artigiani, contadini il cui medico poteva, oppure osava, corrispondere con un medico altrimenti irraggiungibile per prestigio e situazione geografica.
I consulti ci permettono di penetrare anche laddove entravano con difficoltà i medici stessi, cioè nel convento. Il mondo delle monache è assai ben rappresentato, e anche qui si va dalla monaca principessa fino alla più umile sorella, colpite da malattie tipiche della loro condizione, i “mali di monache” ancora più specifici dei “mali di donne”. Si può affermare che la medicina dell’epoca non fosse certamente democratica, ma neppure rigidamente suddivisa per classi sociali. Inutile cercare traccia di onorari e di remunerazioni (qualche donativo emerge qua e là), più facile invece incontrare un tariffario farmaceutico, ma i costi della medicina e della farmacia erano certamente assai elevati.
Tutta la narrazione dettagliata della fenomenologia della malattia ha lo scopo di consentire al medico, cui si chiede un consulto, la formulazione dell’idea del male, cioè della sua essenza e causa più profonda. È un momento fondamentale nel quale il medico immagina minuziosamente il luogo di origine della malattia nel corpo e il suo diffondersi negli anfratti del corpo stesso. Eccettuate alcune pratiche chirurgiche e la litotomia, un unico medico era chiamato a interpretare la malattia e a decretare la terapia: non si era ancora giunti alla divisione del corpo umano in parti da affidare a singoli specialisti. Vigeva il principio ippocratico dell’unitarietà («conspiratio una») del corpo tutto interconnesso al suo interno dal consenso fra gli organi e i fluidi. La chiave di lettura poteva essere umorale (teoria dei quattro umori) o corpuscolare (corpo diviso in particelle o atomi), ma l’unitarietà non veniva messa in discussione. Secondo un principio ippocratico fondamentale «la modalità della malattia è una e medesima, ma il luogo in cui va a depositarsi crea la differenza». Fondamentale, non solo in medicina ma in tutta la filosofia naturale dell’epoca, era la nozione di “spiritus”, l’elemento materiale pneumatico alla base del funzionamento neurovegetativo e delle operazioni mentali (“spirituali” appunto). Questo elemento oggi è stato accantonato, anche se nel linguaggio comune le “condizioni di spirito” continuano ad avere un significato.
I rigagnoli terapeutici erano innumerevoli, ma le fonti da cui discendevano erano l’espulsione dal corpo della materia patogena attraverso tutte le aperture a disposizione e la ricostituzione degli spiriti col conseguente rinvigorimento del corpo. Nei consigli per la guarigione, assieme a purghe, salassi e bagni, aveva molta importanza il cambio di clima (“la mutazion dell’aria”), il viaggio in nave, in carrozza o a cavallo, l’astenersi dai pensieri cupi, la conversazione “geniale”, cioè piacevole, la musica, persino i profumi e la frequente pettinazione del capo. Si ha comunque l’impressione che i tempi della terapia fossero molto “pazienti”, che non esistesse la necessità di guarire entro un certo tempo per tornare all’attività produttiva: occorreva attendere le stagioni idonee e il loro cambio, seguire la dieta lattea o assumere determinati farmaci quando non era troppo caldo, evitare i venti freddi o umidi, vivere in abitazioni le cui stanze consentivano un buon funzionamento dei polmoni. Il medico aveva davanti a sé un caso singolo, modellava la prescrizione su quella persona, metteva in atto delle prassi certamente abituali e consolidate, ma non identiche per i singoli pazienti affetti da quella determinata malattia, guidato dal principio ippocratico secondo il quale «se (scil. il rimedio) non giova, almeno non nuoccia». Certi medici professavano di non curare a Roma come curavano a Perugia, data la differenza di clima, come pure trattavano con diverse cautele un campagnolo rispetto a un abitante della città.
In conclusione,leggendo i consulti dell’epoca a noi moderni viene spontaneo giudicare fantasiosa e necessariamente inefficace una buona percentuale della prassi e della farmacopea entro la quale si muovevano tutti i medici, anche quelli di grado accademico. Ci restano dunque due alternative: o considerare barbara quella congerie di rimedi e con essa tutti i medici scienziati che vi hanno fatto ricorso in tutti i secoli, oppure dover ammettere che ogni epoca è dotata di una medicina che necessariamente sta funzionando entro certi limiti ma che dovrà tramontare per far posto a una più moderna ed efficace metodologia. In altri termini, la medicina di ogni epoca contiene in sé i germi del proprio invecchiamento e del proprio inevitabile declino. Questa considerazione può far accrescere il grado di consapevolezza e di autocritica da parte della medicina contemporanea, quando non colloca decisamente al centro della prassi terapeutica la persona del paziente. In caso contrario assistiamo al prevalere di una medicina autoreferenziale, gerarchicamente sovrapposta al paziente, tutt’altro che scevra da dogmatismi ma inadeguata (oltre che dannosa) ad affrontare la vera complessità del reale.
A mo’ di sigillo vale la pena leggere in traduzione quanto scrisse nell’aforismo latino di apertura il medico Giorgio Baglivi (1696):
«Il medico, ministro e interprete della natura, qualsiasi cosa mediti e faccia, se non obbedisce alla natura, non comanda alla natura. Infatti le origini e le cause delle malattie sono troppo nascoste perché l’acume della mente umana possa penetrare fino a lì, e più spesso la natura inizia una nuova opera dove sono cessati i nostri tentativi».
G. Baglivi, De Praxi Medica ad priscam observandi rationem revocanda libri duo. Accedunt Dissertationes Novae, Romae, typis Dominici Antonii Herculis, sumptibus Caesareni Bibliop., 1696.
B. Gemelli, con la collaborazione di A. Menin, I consulti di Ludovico Pacino Viti (1662-1732) e di altri medici del suo tempo, FrancoAngeli, Milano, 2022.
A. Vallisneri, Consulti Medici, I, a cura di B. Gemelli, Olschki, Firenze, 2006.
A. Vallisneri, Consulti Medici, II, a cura di B. Gemelli, Olschki, Firenze, 2011.
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