Riflessioni antropologiche sul dolore

La difficoltà di esprimere la sofferenza 

Perché tutto questo dolore? A te sembra giusto? A me no. Io mi devo difendere!
– Bianca, Nanni Moretti – 

 

Il tema del dolore è estremamente delicato, vario e pone una sfida iniziale già di per sé molto complessa:

«biomedicina e antropologia, in fondo, si confrontano con la stessa difficoltà: l’impossibilità di descrivere l’esperienza del dolore» (Pizza, 2005, p. 107).

Il dolore ha quindi fatto scaturire una forte collaborazione interdisciplinare tra antropologia e biomedicina, poiché entrambe vengono messe in crisi da questo argomento: se da un lato obbliga a riconsiderare le categorie biomediche, dall’altro la sua incomunicabilità pone in forte difficoltà l’antropologia.  

Il dialogo tra le due discipline, che spesso si sono scontrate su altre tematiche, ha portato ad un cambio di metodologie, all’assunzione di nuovi punti di vista e alla sperimentazione di nuove interpretazioni. «Lo storico francese Jean Pierre Peter ha ricostruito la storia del dolore nel contesto dello sviluppo della medicina in Occidente, mostrando come il sapere medico nel suo percorso storico di formazione abbia costantemente operato una decisa rimozione dell’esperienza del dolore, un oblio e un silenzio interminabile, culminato nella scoperta dell’anestesia» (Pizza, 2005, p.118).  

La biomedicina moderna ha quindi creato un nuovo campo di ricerca studiando il modo con cui viene trattato, le varie visioni e pratiche: la “medicina del dolore” (cfr. Pizza, 2005, cap. 3). Un cambio di paradigma quasi obbligato dal fatto che il dolore ha numerosissime sfaccettature e forme, tutte quante immisurabili scientificamente. Spesso lo specialista biomedico di fronte ad un paziente sofferente chiede: “Quanto dolore ha in una scala da 1 a 10?”. Il tentativo della biomedicina di inscrivere il dolore in categorizzazioni o in scale con punteggi – esistono numerose scale di dolore, le più comuni sono le seguenti: Visual Analogue Scale (VAS), Numeric Pai Rating Scale (NPRS/NRS) e Verbal Rating Scale (VRS) – non fa altro che rimarcare l’inafferrabilità della sofferenza del paziente, che ovviamente dovrà fornire delle risposte basate sulla sua personale percezione di dolore ed eventualmente sulle esperienze vissute precedentemente.

Non esiste quindi un sistema universale, una metodologia per misurare il dolore valida per tutti gli esseri umani.

L’antropologia medica d’altro canto si è interrogata sulla correlazione tra la percezione del dolore e la sfera culturale in cui il soggetto sofferente è immerso. Se la società occidentale ha sempre cercato di limitare il dolore o di sfuggire alla sofferenza, esistono altre società dove il dolore assume un significato diverso: «dalla religione, all’arte, fino alla necessità di lacerare il proprio corpo per ritrovare se stessi, il dolore muta in qualcosa di altro da una semplice percezione sensoriale» (Consiglio, Massariolo, Maestranzi Moro, 2014, p. 2). 

Molti studi hanno cercato di inscrivere il dolore in tratti culturali specifici. Una delle prime ricerche di campo fu quella condotta da Mark Zborowski (Cultural Components in Response to Pain), pubblicata nel 1952, nella quale l’antropologo indagava il rapporto tra dolore ed appartenenza etnica, intesa come classificazione politica, molto spesso con lo scopo di auto riconoscersi in un determinato gruppo sociale. «Zborowski studiò le componenti culturali di risposta al dolore in un esperimento condotto fra i reduci di guerra al Kingsbridge Veterans Hospital, a New York, nel quartiere del Bronx» (Pizza, 2005, p.109). Questo studio pioneristico però cadde nelle generalizzazioni legate alla provenienza dei soggetti coinvolti, andando quindi a ridurre l’esperienza di sofferenza a meri stereotipi nazionalisti. Di fatto non esiste alcun legame tra la percezione del dolore, con la conseguente sopportazione, e la provenienza da una determinata Nazione.  

Ma quindi l’antropologia come può studiare il dolore senza cadere in stereotipi o riduzionismi culturali pericolosi e superficiali?

Partiamo dal presupposto che il concetto di cultura non è più concepito come qualcosa di statico e immutabile, bensì è considerato come un’entità fluida, in continua trasformazione e produzione. Questo approccio, che pone al centro le pratiche culturali, permette di non cadere nella trappola delle generalizzazioni. «È importante evitare di essenzializzare, naturalizzare o sentimentalizzare la sofferenza. Non esiste un unico modo di soffrire; non esiste una forma di sofferenza universale senza spazio e senza tempo» (Moretti, 2019, p. 52).  

Il tratto culturale che risiede nell’esperienza di sofferenza viene a galla quando il soggetto tenta di spiegare il malessere attraverso un linguaggio, che spesso è intriso di metafore. «Elaine Scarry si sofferma proprio sul rapporto tra dolore e linguaggio, mostrando come quest’ultimo diventi inadeguato per la descrizione dell’esperienza di sofferenza e come, allo stesso tempo, sia tuttavia costantemente riconfigurato al fine di poter “visualizzare” il dolore e renderlo comprensibile agli/alle altri/e» (Moretti, 2019, p. 45).  

Uno degli esempi più esplicativi è quello degli Ainu originari dal Giappone che, per descrivere le varie tipologie di mal di testa, utilizzano delle metafore che fanno rifermento al passo degli animali. Esiste quindi il mal di testa dell’orso, quello del picchio o del cervo (cfr. Pizza, 2005, cap. 3) a seconda dell’intensità e della frequenza del dolore. La trasposizione simbolica attuata dalle metafore avvicina la percezione del dolore alla realtà, attraverso un accostamento di elementi che hanno in comune delle caratteristiche simili. «Anche se indicibile, il dolore per una persona che soffre è drammaticamente reale, ed esso non soltanto attiva una richiesta di senso, di comunicabilità, ma è anche un problema pratico che impedisce di fare molte cose, trasformando la vita quotidiana delle persone sofferenti e riconfigurando le loro tecniche del corpo» (Pizza, 2005, p.107).  

Il linguaggio però è composto da una sfera verbale, che esprimiamo attraverso le parole, e da una dimensione non verbale prodotta attraverso gesti, espressioni facciali e movimenti del corpo. È interessante dunque, durante la narrazione dell’esperienza di dolore, osservare come il soggetto sofferente reagisca a livello non verbale, ponendo al centro dell’attenzione il corpo e la corporeità. Il dolore, in particolar modo quello cronico, modifica completamente la percezione del sé, del proprio corpo, del contesto sociale e culturale in cui il soggetto è immerso. Le tecniche assimilate attraverso l’esposizione del nostro corpo alle pratiche sociali vengono meno, proprio perché il dolore ostacola questo processo. Il soggetto sofferente sarà quindi costretto a ripensarsi non solo in una dimensione intima a tu per tu con il proprio corpo, ma anche all’interno della società.  

In questo caso spesso è il dolore che pone il soggetto in condizione di agire, facendo valere la propria agency: «l’agire è da qui inquadrare nei termini di un totale riposizionamento, di una trasformazione attiva, di una rinegoziazione che si articola attraverso nuove forme di interazione fra l’individuale e il sociale» (cfr. Didier Fassin, Margaret Lock, Paul Farmer, Allan Young, Byron Good e Arthur Kleinman) (Moretti, 2019, p.48).

Il dolore è un elemento insieme sociale e antisociale, poiché obbliga ad un ripensamento all’interno della società, ma allo stesso tempo esclude il soggetto sofferente da essa.

Diventa quindi segno e sintomo allo stesso tempo, poiché per segno si intende un dato oggettivo, individuato quindi da uno specialista medico, mentre con sintomo si indica un’anormalità soggettiva percepita dal soggetto stesso.  

La condivisione delle proprie esperienze di sofferenza è fondamentale, proprio perché queste narrazioni rientrano nel processo di cura inteso a livello antropologico. Tuttavia la difficoltà di raccontare il proprio dolore non permette al soggetto di esternare le proprie sofferenze che agli occhi degli altri rimangono incomprensibili. «Vivendo il dolore si sperimenta personalmente l’impossibilità di una sua “condivisione”, e ciò svela le illusioni della “empatia”, marcando l’irriducibile distanza fra noi e gli altri» (Pizza, 2005, p.110).  

«Parlare del proprio dolore è complesso poiché si tenta di renderlo accessibile a chi non lo prova, a chi non lo sente. La difficoltà qui non è soltanto causata dall’impossibilità di trasformare in parole ciò che è individualmente e corporalmente percepito e vissuto; essa è anche correlata al timore delle conseguenze dell’atto stesso» (Moretti, 2019, p. 44). Esternare il proprio sentimento di sofferenza può quindi innescare negli altri un meccanismo di negatività, disapprovazione ed esclusione. Eppure anche il fatto stesso di “provare, vivere la situazione” sulla propria pelle non sarà mai sufficiente per capire fino in fondo il dolore degli altri: «per sapere quanto faccia male il fuoco, bisogna bruciarsi. Ma resta l’incapacità di sapere quanto è grande la sofferenza di un altro che si brucia. Se la scottatura, per esempio, crea una comunanza di destino, pure essa non strappa il soggetto alla solitudine del suo dolore e al senso che lui solo soffre così» (Le Brenton, 2007, p. 40).  

Da parte di chi soffre c’è quindi la piena consapevolezza di non poter esprimere la propria sofferenza in maniera tale che qualcuno possa comprenderla. Questo porta molto spesso il sofferente a rinunciare in partenza al tentativo di esprimere e condividere la propria esperienza. In poche parole «mai l’uomo è più solo di quando è in preda al dolore» (Le Brenton, 2007, p. 40). La dimensione del dolore, nonostante non sia possibile definirla ontologicamente, si inscrive in un quadro influenzato da più elementi che sono culturalmente determinati e che allo stesso tempo determinano le pratiche culturali di uno specifico contesto. Il dolore diventa tale proprio nel momento in cui il soggetto lo pronuncia: esso non è l’oggetto di studio, ma si pone al centro dell’attenzione la modalità con cui viene percepito (si parla di approccio fenomenologico). È quindi il soggetto stesso che deve rielaborare, molto spesso in solitudine, il significato del suo stesso dolore. 

Il dolore è un tema estremamente complesso e articolato, ma allo stesso tempo affascinante proprio perché stimola una riflessione profonda sul corpo, sull’identità e sul sé, elementi determinati culturalmente, politicamente, socialmente e storicamente. La storia degli studi di stampo biomedico sul dolore è ricca e fertile proprio perché esso rappresenta un elemento che sta al cuore dell’esperienza umana. Attraverso questo articolo l’intenzione non è quella di proporre un quadro esaustivo sul dolore (non basterebbe un articolo!), ma è quella di dare nuovi spunti di riflessione su alcune dinamiche di sofferenza, analizzate ed approfondite attraverso lo sguardo antropologico.  

Bibliografia

Consiglio, A., Massariolo, E., Silvia, Maestranzi Moro S., (2014), Il dolore e la sofferenza del corpo: una riflessione socio-antropologica per il sapere dello psicoterapeuta, Studi Clinici. 

Le Breton, D. (2007), Antropologia del dolore, Meltemi Editore, Roma. 

Moretti, C., (2019), Il dolore illegittimo. Un’etnografia della sindrome fibromialgica, Edizioni ETS, Pisa. 

Pizza, G. (2005), Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Roma, Carrocci Editore. 

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