Ripensare il dio disabile

Seconda parte

La prima parte è consultabile qui. 

In una visione irriverente del paradiso Dio è in una sedia a rotelle e si muove curioso, divertito e senza dolore tra gli ospiti, alcuni dei quali sono costretti a spostarsi su sip and puff wheel-chairs. Il Dio dei monoteismi è invisibile, ma possiamo riconoscerlo nella sua icona: il Figlio crocifisso e ora il grave disabile. «Quando ti abbiamo visto o Signore e non ti abbiamo ospitato, curato e nutrito?», chiedono i discepoli condannati al giudizio finale (vangelo di Matteo 25, 31-46). Risposta: quando non vi siete preoccupati di coloro che erano in difficoltà. Così avete trascurato anche me, che ero e sono solo, povero, assetato, malato, paralitico. Ogni volta che vi siete rifiutati di vedere quell’essere umano bisognoso, avete perso un’occasione di riconoscermi e stare con me. 

San Tommaso pensava che tutti i risorti nella carne avrebbero avuto il corpo ricreato nel fiore delle sue capacità, attorno ai trent’anni, non più in crescita, non ancora in decadenza. La visio beatifica (cioè il privilegio dei santi di guardare in faccia nientemeno che Dio) esigeva un organismo sano, bello, forte, attivo, indipendente. Ma i teologi e soprattutto le teologhe della disabilità, alcune delle quali già impegnate nel movimento femminista e LGBTIA+, la pensano diversamente. Se Dio ha assunto le nostre infermità per redimerle, se il centurione romano (l’emblema della laicità politica) riconosce Gesù come Figlio di Dio proprio sulla croce, quando i chiodi lo hanno trasformato in un paraplegico, allora quelle ferite alle mani, ai piedi, al costato fanno ormai parte della vita del Dio trinitario, poiché Gesù è asceso in cielo con quelle cicatrici e con quelle vulnerabilità siede alla destra del Padre. 

Inoltre, la potenza del vangelo smaschera gli idoli borghesi. Non è “forte” il culturista palestrato, il maratoneta, chi salta con l’asta. Non è “bella” l’influencer tipo Barbie, con misure vertiginose di seno, vita e fianchi, shampoo costante, denti avorio, sorriso ostentato, movenze erotiche per il marketing commerciale. Non è esempio di “vigore” il super-eroe ipertatuato, abbronzato da tanning center, annoiato su lussuosi yacht, sessualmente prestante. Quello che non deve neanche chiedere. No, questi sono i miraggi che la società dei prodotti mercantili genera e tritura. Il cinema ci ha insegnato a vedere questi soggetti a loro volta come “malati”, come il Michael Fassbender sessodipendente di Shame (Vergogna), regia di Steve McQueen, 2011. 

È “tenace” colui che lotta per la verità qualunque sia la sua condizione psico-fisica. È “bello” chi resta fedele ai suoi canoni di passione per la vita, ai criteri della sua fede laica o religiosa, agli affetti del care-giving reciproco. Ci si può affezionare anche alla carrozzina, se essa ci aiuta a vivere in famiglia, a fruire dei sacramenti in chiesa, a conversare in luoghi pubblici. La body art, il dadaismo, la pittura materica di Burri o quella spaziale di Fontana (una ferita alla tela, nient’altro, per immaginare l’oltre) hanno demolito i falsi miti della figura neoclassica e la tranquilla, temperata armonia di Bach. L’arte intrattabile ci ricorda che la natura stessa è intrattabile. La natura non perdona, purtroppo, e ci grida nelle orecchie come nel film Grido di pietra di Werner Herzog, 1991, in cui la folle competizione con la natura, senza protezioni né controlli, come in un certo alpinismo estremo, genera tragedie. 

La lezione della teologa Eiesland ha sconvolto la biomedicina della guarigione e ha sovvertito la società dei normali. Non siamo isole separate di sofferenza, siamo un partito in marcia di liberazione e i cosiddetti normo-abili sono solo parzialmente e transitoriamente abili.

Sono stati dipendenti da un utero e dallo svezzamento e saranno bisognosi di stampelle, insulina e antinfiammatori, come tutti coloro che invecchiano. Che cosa ne è stato del dibattito successivo? 

  1. Il movimento per i diritti civili ha messo al muro le società disabilitanti (disabling societies and churches). Una menomazione anatomica o funzionale (impairment) diventa discriminatoria (disability, handicap, sickness) se le barriere civili e culturali non vengono abbattute. A tutti va data un’equa opportunità (fairness) di cure e lavoro, se si vuole sanare un’ingiusta lotteria naturale (natural lottery). Ma ora ci domandiamo: e se questo obiettivo riformatore fosse finalmente raggiunto? Il disagio individuale sarebbe scomparso? Alcuni studiosi e associazioni per diversamente abili rispondono di no. Certo, è più facile prevedere i vantaggi di una società inclusiva per handicap solo somatici. Ma quando c’è un deficit neurologico, un recidivo disturbo psichico e un’incapacità psico-fisica che nessuna protesi, farmaco o terapia chirurgica riesce ad alleviare, che cosa pensano i protagonisti e i loro curanti in merito ai patimenti residui? Qui c’è lo spazio per il dibattito che vorrei aprire e condividere con chi mi legge. 
  2. Non si deve cadere nella trappola della retorica tardo-romantica (che lega amore e morte, tisi e passione, follia e genio). Ciò che si può guarire va guarito. Ciò che si può curare va curato. Lo vorrebbe anche il paziente, che purtroppo può aver perso la capacità di decidere (competence, si dice in gergo etico). È vero che il “mio” corpo di disabile è quello segnato da un paralizzante impairment, ma lo è “adesso” e “qui”. Se il corpo potesse parlare, vorrebbe fiorire (si parla di flourishment), vorrebbe star meglio! Nel film Oasis di Lee Chang-Dong, 2002, il regista ci mostra il corpo della protagonista, spastica per paralisi cerebrale, sciogliersi dai lacci della malattia, in un attimo miracoloso, in una magia taumaturgica. Non vorremmo forse anche noi (se fossimo in quel plot, in quella trama) tornare a camminare, a lavorare, a viaggiare? La fenomenologia contemporanea pone l’accento sul Leib, sul corpo vissuto e sul dolore profondo, che ogni malattia seria porta con sé, anche quando i care givers sono ottimi e il mondo è pronto ad ascoltarci e aiutarci.  
  3. Desideriamo vita, libertà, felicità, amore, un/una partner, dei figli, una buona dose di indipendenza. Non si tratta solo di un’attesa edonistica, di una fruizione di piaceri. Si tratta di una speranza teologica. Gesù ha assunto su di sé contraddizioni altrui. Era un uomo buono. Non aveva fatto male a nessuno. Non intendeva affatto morire o patire. Ha dovuto attraversare la persecuzione, le botte, la tortura e la morte cruenta, perché era fedele alla sua buona causa, cioè proclamare e testimoniare la possibilità e la vicinanza di un Regno di giustizia, in cui l’ultimo dei deboli sarebbe stato primo e l’affamato e l’oppresso avrebbero avuto ragione dei violenti. La buona notizia cristiana (ci si creda o no) è questa: la morte non ha vinto su di lui, la sua tomba fu trovata vuota, molti giurarono di averlo rivisto. Risorto, Gesù cucinava pesce e lo mangiava arrosto. Stava bene, anche se si teneva le cicatrici della passione. Ricordava esattamente quello che era successo e, quando lo narrava, scaldava il cuore di commozione. Ora la Chiesa, quella fatta in primo luogo di soggetti diversamente abili, attende il suo ritorno e lo prega di avere misericordia.  
  4. Il cristiano (anche il teologo del “Dio disabile”) non vuole né prediche accusatorie (hai peccato! Ecco il risultato!), né commiserazione (oh poverino! Accetta! Non essere di peso), né elemosina stitica (tieni e levati di mezzo), né santificazione aristocratica. Il cristiano non loda la malattia e non la ritiene benefica (di per sé) né la considera una necessaria messaggera di maturazione spirituale. Il cristiano combatte la malattia, il male, il dolore, la morte! Per ora non ce la fa. Ma spera! Spera nel giorno in cui banchetteremo assieme, alla faccia del nemico che ci voleva schiacciare e umiliare. Nessuno e niente può strapparci, anche adesso, la nostra infinita dignità, anche se il male è più forte di noi. Anche se abbiamo dovuto faticosamente costruire una diversa abilità per noi o per i nostri cari. Eppure, anche questo non ci basta. Non basta ai nuovi teologi del “Dio disabile”. Noi contestiamo quei religiosi che dicono che per sua natura l’uomo è malato e mortale. Di diritto invece l’essere umano non dovrebbe morire anche se è una creatura finita, fragile e vulnerabile. Se abbiamo nei cieli un alleato, è un Dio della vita, che ci ha dato un giardino ospitale e i frutti buoni dell’albero immortale. È un Dio che ci guarirà. 
  5. E allora perché Dio non interviene? Perché ci lascia soffrire? Perché non guarisce il nostro bambino della sua menomazione? Perché non lenisce la mia sclerosi? Perché non ci libera dalla cecità? Così aveva fatto Gesù, quando gli portavano storpi o lebbrosi. Li guariva! E allora perché? Qui azzardo la mia opinabile (e troppo sintetica) risposta: perché Dio non è onnipotente! Non sappiamo come e perché, ma egli/ella (Dio è donna e uomo, madre e padre e altro ancora), pur volendoci bene, non riesce a strapparci dall’infermità. Dio sta crescendo! Dobbiamo aver cura di Dio, della sua sedia a rotelle, del suo silenzio distaccato, della sua sofferenza per ciò che è andato storto, incomprensibilmente. Per ora non ci verrà incontro come noi vorremmo. Ma noi riserveremo un posto per lui. Per quando tornerà.  

Eiesland aveva ragione e torto. Aveva ragione: Dio sente dentro di sé il nostro male. Il nostro corpo è il suo. Il corpo menomato è riconosciuto, onorato e accolto da Dio nella vita risorta. Ma Dio non ci chiede sudditanza, self-pity, obbedienza cieca, devozione idolatrica o giustificazione del male. E se io desidero camminare verso i castelli di Bellinzona e salire le scale e parlare senza ictus e fare l’amore, lo vuole anche Dio.

Eiesland aveva torto quando pensava a una disabilità fissa, rigida, opposta all’abilità (che il mondo del business idealizza come indipendenza).

Nella vita del mondo che verrà (teologicamente: nel corpo di Cristo risorto) la nostra identità è e sarà amata proprio in quanto dipendente da altri (contro il mito dell’autonomia individuale). E saremo tutti in cammino, tenendoci per mano. La nostra persona entrerà in una trasformazione, in nome di un desiderio incondizionato di liberazione dal male.  

Risorgeremo nella carne. Il nostro corpo non sarà sostituito ma rinnovato. L’obiettivo della vitalità (non dell’efficienza produttiva materiale) sarà umanizzato e personalizzato. Non esisterà più la separazione tra abili e diversamente abili, poiché la forza dello Spirito riplasmerà insieme le nostre forze e le nostre debolezze, le nostre armonie e le nostre dissonanze. Le ferite resteranno ma cambieranno di aspetto e significato. Non più accompagnata da dolore cronico, la vita vulnerata di bambini, incidentati e anziani attraverserà un rimodellamento (già iniziato moralmente – non un maquillage) in direzione di conoscenza, libertà, amore, gioia, condivisione.  

Il portatore di disabilità è alla frontiera storica di una nuova civiltà.

E il Dio cristiano dell’alleanza chiede, per il proprio stesso bene, di lottare assieme ai più fragili in vista di un futuro di corpi trasformati in meglio, in vista di una nuova creazione. Perciò la vita disabile, la vita non-convenzionale è anche alla frontiera dell’escatologia. Continuità nel cambiamento. Saremo gli stessi, ma il nostro corpo, lo stesso nostro corpo di adesso, sarà nuovo, avrà una nuova Gestalt. La teologia del Dio disabile è una teologia della liberazione 

Bibliografia

Lisa D. Powell, The Disabled God Revisited. Trinity, Christology and Liberation, London, t&tclark, 2023. 

[La visione d’inizio articolo è di Nancy Eiesland ed è riferita da Lisa Powell a p. 18 del suo volume. Dio è in una puff-chair come quelle controllate dal respiro di soggetti con tetraplegia. Sipping-puffing sta per inspirare-espirare. In Eiesland la visione non si legava a sensi di passività, sofferenza, autocommiserazione nel personaggio di Dio, ma invece forza di sopravvivenza, capacità d’immaginare. Era un corpo onesto, semplice, non tragico anche se limitato. Non è un’immagine usata a scopo di conforto, secondo Powell, ma è una rivelazione che Dio fa di se stesso in Gesù, che risorge ma non con un corpo perfetto, idealizzato, privo di rotture e di menomazioni. È invece un disabled body. Dunque la disabilità non intacca la dignità umana di imago Dei; se Gesù è l’incarnazione di Dio, Dio è disabile; nell’eucaristia il corpo di Cristo resta rotto, come il pane che si spezza sull’altare; la Chiesa è un corpo menomato per definizione; la risurrezione della carne non cancella o nega le disabilità in nome di una perfezione irreale, ma anzi la vita del mondo che verrà consente al corpo non-convenzionale di partecipare alla vita divina e consente a Dio di essere toccato dall’esperienza di chi è menomato (Eiesland compendiata da Powell, p. 20)]  

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