Rispetto
Una (possibile) lettura Medical Humanities
5 Settembre 2023 – Medical HumanitiesTempo di lettura: 15 minuti
5 Settembre 2023
Medical Humanities,
Tempo di lettura: 15 minuti
Vorrei aprire questo intervento con un aneddoto personale sulle Medical Humanities (MH). Quando frequentai il corso, avvertivo la necessità di definire questo termine, cosa alla quale, con arguzia che avrei compreso solo in seguito, i docenti responsabili del master si sottrassero costantemente ed elegantemente.
In un intervento in cui si parlava di follia, Umberto Galimberti spiegava come il termine definire contenga per l’appunto il termine “finire”. Era questo il problema:
definire le MH significava in primo luogo ascriverle in cluster pensati e quindi privati di qualsivoglia capacità generatrice oppure di germinante contaminazione;
significava inoltre assegnare loro lo stesso sguardo della medicina tradizionale, che per essere efficiente deve dimostrare convergenza nello sguardo.
Le MH hanno uno sguardo che sa essere anche divergente, ma non per questo meno esatto. È la questione dei coni e dei bastoncelli e delle stelle che possono essere viste solo se non le osservi direttamente. Avere uno sguardo convergente sull’uomo significa (anche) determinarlo; se per alcune discipline questo può essere un vantaggio, per altre (quelle che cercano di mantenere il più ampio possibile degli sguardi sull’uomo e il suo destinarsi) non è un vantaggio. Determinare non è un termine più ampio di definire, proprio perché “de-termina” e quindi limita. Definire e determinare sono termini perimetrali, creano cioè un perimetro e i confini personali sono fatti per definire il loro interno, non ciò che vi è all’esterno.
Galimberti scrive nella sua raccolta di domande a lui poste in D – la Repubblica delle donne «il senso non è quello di rispondere alla domanda, ma di radicalizzarla, andando il più possibile in fondo, dove si annida il radicamento.» Lasciare aperte le domande significa anche lasciare la migliore condizione affinché le credenze più radicate possano mutare nel tempo, trasformarsi e permettere anche la nostra di trasformazione.
Il termine rispetto ha almeno tre significati di cui il primo è semplice e funge da riferimento (rispetto allo scorso anno, questo è iniziato molto meglio; rispetto a quel vestito, questo ti sta meglio). Il secondo è quello in cui il rispetto si porta (dovresti portare rispetto per quella persona). La terza è quella per cui maggiormente siamo qui oggi rispetto il tuo punto di vista, rispetto le tue opinioni, rispetto ciò in cui credi.
Pur avendo sfumature differenti, tutte e tre le articolazioni del termine rispetto rimandano o alludono ad una relazione tra le parti. L’idea di mettere in relazione i due anni nell’esempio precedente (rispetto allo scorso anno, questo è iniziato molto meglio) parte proprio dall’anno precedente (che funge da oggetto di riferimento (oggetto di partenza)) per giungere all’attuale (che funge da confronto). È un’operazione strana quella del confronto perché pone (anche) una questione valoriale e vedremo come in questo testo il termine valore, ricorra costantemente.
Valore è un termine polisemico, ce lo spiega bene Mancuso nel suo recente libro “Etica per giorni difficili” quando afferma: «Ma cosa significa precisamente Valore? Il campo semantico del concetto è molto ampio: può indicare prezzo (il valore di una casa), abilità (un poeta di valore), potenza (il valore del denaro), validità (un documento senza valore), importanza (una questione di immenso valore), idealità (i valori di famiglia). Se dovessimo definire in modo semplice cosa significhi valore rischiamo una ricorsione in cui affermiamo, ad esempio, che «valore è ciò che per noi vale»; quindi prendiamo al momento per buona la definizione che valore è ciò che per noi è importante. E se per noi è importante significa che non siamo disposti a perderlo, perché altrimenti affermeremmo che è superfluo. È importante perché ha una certa quota di costitutività, ci costituisce, è parte di noi, contribuisce a definirci. Se potessimo descrivere una geografia valoriale scopriremmo come, con moto centripeto, spostandoci quindi dalle zone esterne a quelle interne, incontreremmo gli elementi di poca o nessuna importanza fino agli elementi di molta importanza fino a giungere a quelli di vitale importanza, non negoziabili (ad esempio la sacralità della vita per chi crede che la vita sia sacra, oppure ordinamenti come non uccidere, non rubare, di uguaglianza e diritti).
La seconda accezione pone anch’essa relazione: portare rispetto ad una persona oppure a qualcosa (portare rispetto, ad esempio per la maglia per la quale si gioca, oppure la divisa, anche se qui il rispetto è relazione di tipo istituzionale). Non è curioso che in questo caso il rispetto vada portato? Credo siamo tutti d’accordo nell’affermare che portare rispetto si rifaccia ad una questione di postura, fisica o metaforica, che ricorda il termine portamento.
Pure la terza definizione (rispetto le tue idee, rispetto il tuo punto di vista) presuppone una relazione tra le parti in causa. Si tratta di uno scambio decisamente valoriale e quindi etico (Mancuso sostiene che l’etica poggi su due pilastri fondamentali: valore e libertà). Essendo quindi che il rispetto delle idee è sempre un confronto valoriale, allora diviene per appartenenza un problema etico.
Abbiamo quindi sempre una questione di relazione, di posizione e di contrapposizione. L’unica declinazione di cui però posso parlare di rispetto con un minimo di ragion veduta, l’unica per la quale ho da contrapporre la concretezza dell’esperienza alla dissertazione teorica di cui intuisco solo i pilastri argomentativi è il rispetto nell’ambito della relazione di cura.
Cura è un termine magnifico. Significa fare qualcosa con l’ottica della guarigione o della risoluzione di un problema (le è stata prescritta una cura), significa anche attenzione (prendersi cura). Prima abbiamo visto come il rispetto si porti, ora della cura usiamo questo termine riflessivo. Funzionano, a ben vedere, solo se visti come un dono rispettoso. Cura significa anche disponibilità perché non può esserci attenzione senza disponibilità e disponibilità vuol dire sapere darsi. Sono concetti che a furia di essere ripetuti si sono atrofizzati e avvizziti. Basta però cambiare prospettiva, passando dal piano verticale a quello orizzontale, in questo linguaggio posturale etologico che da sempre definisce vincitori e vinti, oppure diocenescampi, a mettere sul letto d’ospedale la persona più cara che abbiamo per capire fino in fondo e senza dubbio come la retorica professionale diventi improvvisamente una necessità umana. Il tempo del passaggio da concetto a vissuto, da concetto a dolorosa esperienza.
Quando diciamo “ce ne prendiamo cura” a quale oggetto stiamo pensando primariamente? Facciamo riferimento alla persona, alla persona che ha una malattia o alla malattia? Oppure facciamo riferimento al fatto che sia un paziente all’interno di un sistema istituzionale. Sono tre lenti d’ingrandimento possibili e molto differenti tra di loro. Chi stiamo guardando davvero?
Il paziente che è in pronto soccorso con una seria controindicazione alla deambulazione ma che deve andare di corpo e che si vergogna terribilmente ad usare una padella. Il nostro “no non può andare in bagno” chi sta tutelando? Il paziente (che ovviamente è libero di esprimere il principio di autonomia fino a che questo non si scontri con la Procedura con la P maiuscola?). È libero di rifiutare la chemioterapia, il ricovero, l’antibiotico nelle gravi infezioni, può capire la portata di una colecistectomia laparoscopica e pure rifiutarla ma non è sufficientemente intelligente da capire quello che potrebbe capitargli andando al bagno. Oppure stiamo tutelando il reparto, noi stessi, la sua frazione d’eiezione. Per chi non siamo capaci ad assumerci dei rischi? Perché vallo a spiegare tu al procuratore perché era in bagno quando è andato in arresto nonostante mostrasse la sintomatologia di una Sindrome Coronarica Acuta, oppure quando ha avuto una sincope e ha picchiato la testa con relativo trauma cranico? Perché spiegalo tu al superiore caposervizio l’idea geniale che hai avuto, fatto salvo che sta giudicando i fatti alla luce dei risultati certi ma che per te erano solo un’ipotesi.
Curare significa effettuare almeno tre passaggi: (i) incontrare una persona che presenta dei sintomi; (ii) svolgere una visita clinica; (iii) richiedere gli esami (per confermare quanto sospetti o farti capire quello che non avevi capito). Se ti fermi all’ECG, al GFR o alla TAC va bene solo parzialmente perché ogni persona (per noi è un paziente e non dimentichiamo che il paziente è una persona che viene istituzionalizzata) chiede di essere vista, di essere guardato perché è un bisogno che ci portiamo dietro da sempre, sin da quando siamo nati. Incapaci di attirare l’attenzione, se non siamo capaci di essere visti (e amati) moriremo di stenti. Certamente la richiesta primaria esige che tu sappia riconoscere e diagnosticare un infarto ma ad un certo punto, arriva sempre presto o tardi, il paziente chiederà che tu faccia l’operazione inversa, in cui procedi dal dettaglio alla visione d’insieme, dalla troponina alla persona. È per questo che i microscopi hanno tre ottiche, ognuna serve per guardare altro.
Fatti questi passaggi minimi è ora pure possibile che un altro paziente ti dica che ti ringrazia molto del fatto che hai capito grazie alla tac che se non riceve delle sacche di eritrociti morirà senz’altro; vi dirà pure che è meglio morire una sola volta sulla terra che essere dannati per l’eternità «perché la vita di ogni essere vivente è il suo sangue, in quanto sua vita; perciò ho ordinato agli Israeliti: Non mangerete sangue di alcuna specie di essere vivente, perché il sangue è la vita d’ogni carne; chiunque ne mangerà sarà eliminato». Rispettare il suo punto di vista sarà ora più complicato.
Scopriamo solo ora che fino a questo momento non avevamo mai dovuto rispettare nessuno perché non c’era nessun contraddittorio,
eravamo senza saperlo tutti e due nella stessa curva a tifare per la stessa squadra.
Quando poco prima parlavamo del rispetto come operazione di confronto. Confronto deriva da cum frontis, mettere assieme le fronti, stare l’uno di fronte all’altro. Di fronte, non di lato. Di lato stanno i due appena citati della curva nerazzurra, di fronte si mettono le persone per potersi osservare, per osservare un fenomeno scontato oppure sconosciuto.
Capiamo allora che noi e l’amico-testimone-di-Geova non apparteniamo allo stesso sistema solare.
Ci chiediamo come si faccia a lasciare una famiglia e dei figli perché qualcuno di cui non conosci neppure l’esistenza ha riportato delle parole nei libri del Pentateuco. Cosa ci impedisce ora di non entrare in alleanza ma di restare nelle posizioni di confronto? Argomento contro argomento, valore contro valore. Dicevamo all’inizio che è una questione di valori e ciò che è per te importante definisce anche chi sei, le posizioni che prendi nella vita, per cosa sei disposto a dare battaglia, su quali terreni non retrocederai mai.
Riuscire per un attimo ad entrare nell’orbita altrui significa cambiare luogo dal quale osservi il mondo. È un’operazione dispendiosa perché destrutturante e non è detto che i mattoncini siano quelli di cima. Tipo Jenga. Dispendiosa perché i nostri pensieri-arco-riflesso ci sono comodi, ci restituiscono un modello di mondo che ci siamo lentamente costruiti, grazie al quale possiamo affrontare il mondo senza doverci pensare su troppo. Se siamo articolati e differenziati vinciamo a mani basse con il minimo sforzo. Destrutturarsi significa perdere identità, come se poi, davvero questa (l’identità) sia immutabile nel tempo e mi garantisca che io sia lo stesso di 10 anni fa e che sarò lo stesso tra 10 anni. Perché se assumo un nuovo punto di vista è possibile che debba rivedere cosa penso e quindi di conseguenza chi sono. Significa assumersi il rischio di farsi contaminare da pensieri nuovi, prospettive diverse, mettere nell’armadio della soffitta il cappotto degli ultimi 25 inverni. Teseo alla fine si chiedeva se fosse ancora sua, quella nave, pur essendo la nave di Teseo.
I curanti hanno un daimon che è quello di cui parlava Platone, uno spirito guida a cui devono rispondere. Altri l’hanno chiamato “vocazione” ma sapeva troppo di sacrestie, ragione per cui si è deciso che ora si chiama “professione”. Abbiamo gettato il bambino con l’acqua sporca (non che la Chiesa sia l’acqua sporca, ovviamente), abbiamo deciso che era meglio che gli ospedali fossero delle aziende. Non possono farne a meno, i curanti, di curare semplicemente perché ne sono costituiti. Non hanno scelta.
Una persona cade nell’androne di un supermercato. Osserviamo da lontano, se si rialza va tutto bene, possiamo distogliere lo sguardo. Possiamo però perderlo questo daimon; per colpa della tecnica, dei ritmi frenetici, delle responsabilità, delle istituzioni che sono istituti di cura ma che troppo spesso non riescono a curare chi dovrebbe curare. Possiamo perderlo e diventare cinici, disincantati e apatici al cospetto di qualunque storia. Oppure mantenerlo questo daimon nonostante tutte le difficoltà; i pazienti maleducati, le istituzioni indifferenti e i ritmi infernali. Restiamo curanti nonostante tutto. Gli altri sono terapeuti, impiegati o funzionari della cura, che non l’hanno mai avuto questo daimon. Sono perfetti nel preservare il rispetto.
Vuoi essere operato? Ok.
Vuoi sospendere la terapia? Ok.
Vuoi firmare e uscire dall’ospedale? Ok.
Domani esci e vai a Zurigo in un appartamento di Exit? Ok.
Come ne veniamo fuori da questa situazione?
Forse ne veniamo fuori garantendo il tratto che unisce quanto detto sopra sul rispetto e su come indichi sempre una relazione tra due soggetti-oggetti. Ciò che va preservata, a tutti i costi, è la relazione dove per relazione intendiamo quella dinamica (psicologica-chimica-alchemica) che è unica proprio perché mette in relazione due soggetti unici. Se è ripetuta allora abbiamo un problema di omologazione dei pazienti. Garantire la relazione è in ultima analisi portare il rispetto alla massima espressione: significa comprendere fino in fondo la weltanschauung altrui e questo necessita di domande, non risposte. Dibattere e confrontarsi talvolta anche in modo fermo.
E qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa accada, non abbandonare mai la relazione, esserci fino alla fine. Stare fino alla fine. Rispetto, alla fine, è forse solo permettere che l’altro possa essere.
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