Si vis vitam, para mortem? 

Una serie lungo la soglia della morte 

Questo articolo fa parte di una serie. Il contributo precedente è consultabile qui.

Per quanto ho potuto constatare, se pochi analisti hanno seguito l’esempio di Freud nei suoi saggi di psicotanatologia e di riflessioni relative alla caducità, pochissimi addirittura si sono occupati della preparazione alla morte per dare senso e valore autentici al bene prezioso e fragile della vita.  

Per affrontare questo delicatissimo tema e prima di farlo, vorrei segnalare che Freud aveva adombrato il tema della Pulsione di Morte e quello connesso della preparazione alla morte in funzione della condotta, delle scelte di vita, in uno scritto raramente citato dal titolo Il problema della scelta dei tre scrigni. Questo saggio è del 1913, dunque ben prima di Al di là del Principio di Piacere, che è del 1920, scritto nel quale Freud espone la sua ipotesi della Pulsione di Morte, nell’ambito della revisione della sua teoria pulsionale.  

Nel Problema della scelta dei tre scrigni, Freud riprende la commedia di Shakespeare Il mercante di Venezia, lavoro ricchissimo di spunti di riflessione, e dal duplice e intricato intreccio. Per quanto mi interessa in questo contesto, voglio ricordare che Bassanio aspira alla mano della bella Porzia, che sottopone i suoi pretendenti alla scelta tra tre scrigni per valutare segretamente le qualità del candidato. Bassanio sceglie lo scrigno di piombo piuttosto che quello d’oro o quello d’argento, e compie così un gesto di moderazione e di saggezza. Freud nota che si tratta per Bassanio di aver saputo scegliere il limite, la caducità, rappresentata dal piombo che ha lo stesso pallore della morte. Questa osservazione mi sembra preludere alla teorizzazione della Pulsione di Morte, intesa non tanto nel senso di un brutale Cupio dissolvi, ma piuttosto nel senso dell’accettazione saggia del limite e della caducità come saggezza della vita, in un processo ricco di nessi con quelli della rinuncia pulsionale come la sublimazione, e quelli della neutralizzazione della Pulsione di Morte, finalmente posta al servizio della buona battaglia della vita, come direbbe Paolo di Tarso, per dare senso e significato all’esistere nella compiutezza del fine e della fine. 

Non solo, dunque, Freud in questo scritto anticipa la Pulsione di Morte, ma ci mostra un modo in cui è possibile costruire una buona vita e una buona morte. Sembra assolutamente verosimile che ci si possa forse congedare serenamente dalla vita soltanto dopo averla vissuta pienamente, dopo avere coltivato i valori che si sono scelti come guida della propria esperienza, ed avere perseguiti i fini che ci siamo proposti alla luce dei nostri valori. Per quanto queste affermazioni possano essere condivise, in realtà l’individuazione di valori e di fini degni di questo nome è un processo estremamente complesso, le cui premesse vanno rintracciate addirittura nei primi momenti di accudimento della nostra vita. E non intendo affermare che le fondamenta di questo processo siano necessariamente delle esperienze solo favorevoli di accudimento amoroso, ma anche esperienze di relativa inadeguatezza della madre, ma che nell’insieme abbiano innescato nell’essere umano una complessa dinamica di processi di identificazione e di disidentificazione, che sia pervenuta alla costituzione più o meno ardua di una identità solidamente ancorata ad una sufficiente fiducia e ad una realistica speranza, ed allo sviluppo di un Super-Io e di un Ideale dell’Io capaci di fronteggiare e guidare costruttivamente il nostro rapporto con il Mondo Esterno ed il Mondo Interno, in un progetto etico e creativo.  

A più riprese Freud si era interrogato sul perché della spinta civilizzatrice negli esseri umani, sulla natura della presenza di una sorta di pulsione al perfezionamento, definendola alla fine misteriosa. Certo potremmo dire che la solidarietà virtuosa rappresenta una scelta che premia il benessere individuale e quello collettivo più della rozzezza e della distruttività; ma sicuramente l’evoluzione della Civiltà umana è frutto di uno sforzo individuale e collettivo enorme, e continuamente si trova a misurarsi talvolta eroicamente con la distruttività paranoide, talora in forma spettacolare nelle vicissitudini storiche, e sempre sfidando i mille modi sottili e perversi in cui questa si esprime nella nostra quotidiana esperienza. Freud si chiedeva chi alla fine avrebbe vinto tra le forze dell’amore sempre più nobile e spirituale e le forze devastanti e incolte della distruttività.  

Di proposito evito di parlare di un conflitto elementare tra Pulsioni di Vita e Pulsioni di Morte, perché si tratta piuttosto di complessi conflitti intersistemici ed intrasistemici, per cui si potrebbe dire della buona Pulsione di Vita e della cattiva Pulsione di Morte, ma anche delle occasioni in cui si esprimono una buona Pulsione di Morte ed una cattiva Pulsione di Vita, perlomeno manifestamente e di volta in volta in funzione delle complesse forze in gioco. Una Pulsione di Vita dominata dal Principio di Piacere per intenderci avrebbe effetti negativi, mentre una Pulsione di Morte opportunamente neutralizzata e sublimata potrebbe essere al servizio della ricerca di senso e della accettazione del limite. Para mortem, diceva Freud.  

Qui entrano in gioco i meccanismi della educazione delle Pulsioni, che passa attraverso le funzioni della integrazione e delle buone identificazioni, e delle più volte invocate sublimazione e neutralizzazione. Non è un caso che Freud più volte abbia fatto riferimento a questi concetti, senza averli mai affrontati sistematicamente, malgrado in alcune occasioni abbia esplicitamente alluso al progetto di scriverne.  

Nel caso della schizofrenia, non solo l’angoscia della morte potrebbe innescare la regressione psicotica e/o definire degli insuperabili punti di fissazione, ma potrebbe quindi anche bloccare il paziente nello sviluppo della pienezza della propria vita, al punto da rendere impossibile l’esperienza di una buona vita vissuta, e contribuire fatalmente a rendere insopportabile la prospettiva della fine di una vita sprecata.

Kurt Eissler si riferisce a valutazioni di questo genere quando tutti noi ci avviciniamo alla fine della nostra vita, o semplicemente consideriamo quanto di buono abbiamo fatto fino a questo momento.

Eissler considera la possibilità che la vita non abbia senso o non sia pervenuta a costruirne uno che davvero ci conforti, quando la si considera nella sua interezza ed in prossimità della fine.

Altri considerano infatti che la vita non abbia senso, ma non sia ripugnante al senso, possa essere o addirittura debba essere investita di senso, e che questo sia il compito di ogni essere umano, spinto da un impulso al perfezionamento tanto misterioso quanto ineludibile.  

Zapparoli considera che con il venir meno della fede religiosa si sia aperta la strada verso una funzione che lui chiama di ortotanasista, destinata a rintracciare senso e significato alla vita del morente, valutandone la possibilità nel morente, quando questi siano mal definiti e contribuiscano con la loro fragilità alla sua disperazione ed alla sua solitudine.

Tutto ciò può essere aggravato dalla incapacità dei familiari e degli amici di assistere adeguatamente il proprio caro, non avendo essi stessi nessuna seria esperienza di una propria preparazione alla morte, che hanno sostanzialmente soltanto denegato.

Naturalmente a complicare le cose sta anche il fatto che sembra che non ci sia una reciprocità tra l’esperienza del morente e quella di chi lo assiste. Questo è il punto di vista di Eissler, che dubita della possibilità se non della opportunità di chi assiste il morente ad identificarsi con lui, sia perché Eissler non ritiene che esista una parità tra assistente e morente, sia perché una piena identificazione col morente porterebbe chi lo assiste alla disperazione.   

Queste considerazioni a mio parere non fanno altro che confermare che siamo in una epoca in cui il diniego della morte fa parte del comune sentire, coniugandosi con quella che Baumann chiama la decostruzione della mortalità, di cui abbiamo ampiamente parlato, fino a giungere alla stessa decostruzione della immortalità, alludendo con ciò al nostro vivere in un eterno presente che deve essere continuamente consumato e rigenerato, al servizio di un paradossale e parossistico principio del piacere, che finisce per assomigliare piuttosto ad una bolla narcisistica maniacale, che dovrebbe proteggerci dall’ansietà della temporalità, tra passato, presente e futuro che troppo alludono alla caducità.  

Zapparoli conclude la sua disamina del compito dell’ortotanasista, dicendo che questi deve favorire lo sviluppo di una area illusionale specifica del morente, utilizzando dunque le risorse della persona assistita per ottenere di alimentare una qualità della fine della vita che cura il morire senza avere la pretesa di curare la morte. Trovo di straordinario interesse l’accostamento che Zapparoli fa del morente con lo psicotico cronico: entrambi non possono sperare di curare la loro malattia, cioè la morte e la psicosi cronica, però possono sperare di utilizzare le loro risorse per rendere meno gravoso il loro percorso, potendo contare su qualcuno che capisce empaticamente queste configurazioni estreme di vita e non li lascia soli, né fisicamente, né soprattutto spiritualmente.  

È pure estremamente significativo che Zapparoli riservi il compito dell’ortotanasista a quelle situazioni in cui non vi sia un’altra assistenza spirituale. Va da sé che questa allusione fa riferimento alla assistenza di un religioso, confermando così il senso della religiosità, che è quello di fornire una estrema speranza in una situazione estrema, ma universale. È notevole che Freud nell’Avvenire di una Illusione abbia poco evidenziato la sensibilità degli esseri umani per l’immortalità, preferendo insistere sul bisogno degli uomini di protezione in questa vita, della protezione di un padre onnipotente, come accade nel bambino, quando le cose vanno bene. Questo stesso padre può assumere i connotati di un non meno onnipotente ed inquietante persecutore, quando le cose vanno male, ma in entrambi i casi la protezione dalla morte o la minaccia della morte assumono un rilievo assolutamente centrale. 

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