Specchio, specchio delle mie brame

Il racconto come dono (talvolta avvelenato) 


«Come la fame rintuzzata, e spenta
fu la sete in ciascun, l’egregio vate,
che già tutta sentìasi in cor la Musa,
de’ forti il pregio a risonar si volse,
sciogliendo un canto, di cui sino al cielo
salse in que’ dì la fama. Era l’antica
tenzon d’Ulisse e del Peliade Achille,
quando di acerbi detti ad un solenne
convito sacro si ferîro entrambi.
[…] A tai memorie il Laerziade, preso
l’ampio ad ambe le man purpureo manto,
sel trasse in testa, e il nobil volto ascose,
vergognando che lagrime i Feaci
vedesserlo stillar sotto le ciglia.
[…] Così, gocciando lagrime, da tutti
celossi. Alcinoo sol di lui s’avvide,
e l’adocchiò, sedendogli da presso»
 
Omero, Odissea, canto VIII, vv. 90-124 

 

Nel canto VIII dell’Odissea, Ulisse, in incognito alla corte dei Feaci, ode la propria storia dalla voce di un aedo cieco. Sentendosi narrare, piange, coprendosi il volto. È su tale scena che Adriana Cavarero si sofferma (1997: 27 sgg.) per sottolineare la forza del racconto della storia di un soggetto da parte di altri e la capacità che esso ha di rispondere a un desiderio profondo di sentirsi narrare.  

L’autrice, riprendendo Hannah Arendt (1987: 221), ricorda che Ulisse «non aveva mai pianto prima […] certo non quando i fatti che ora sente narrare erano realmente accaduti. Soltanto ascoltando il racconto egli acquista piena nozione del suo significato». Nella sua opera Tu che mi guardi, tu che mi racconti (1997) – che ha già ispirato il precedente contributo su questo sito (Bernegger, 2023) – Cavarero chiama tale fenomeno «paradosso di Ulisse», riferendolo alla «situazione per cui qualcuno riceve la propria storia dalla narrazione altrui» (idem: 27-28). La filosofa fa notare come l’eroe omerico sembri «non sapere chi è sinché non si imbatte nel racconto della sua storia» (idem: 27). A Ulisse commosso, il re dei Feaci domanda allora chi egli sia, chiede il suo nome: «Ulisse, il figlio di Laerte, io sono» (canto IX, v. 21), egli risponde, e comincia il suo lungo racconto autobiografico. 

Come Adriana Cavarero non manca di sottolineare, il nome è d’altronde annuncio dell’unicità della persona e, in quanto tale, è dell’ordine del dono: «Si tratta di un nome non da lui scelto bensì dato da altri: come dato e non scelto è, per l’esistente, il suo essere così com’è. L’unicità che pertiene al proprio è sempre un dato, un donato» (idem: 29).  

L’esempio omerico si offre così quale base per la nostra riflessione su narrazione, dono (talvolta avvelenato), riconoscimento e trasformazione. Innanzitutto, perché la commozione di Ulisse, per quanto celata sotto il manto, lascia trapelare l’apprezzamento per un dono inatteso e inconsapevole da parte dell’aedo cieco, che ha cantato la sua storia.  

Il dono ha, in questo caso, un carattere involontario. Nondimeno esso ha degli effetti, riconoscibili, su Ulisse. L’emozione dell’eroe è l’indizio che il canto risponde a quel «desiderio di narrazione» di cui Cavarero parla (idem: 46), che riguarda la rivelazione e il riconoscimento, attraverso il racconto della storia di vita, dell’unicità e, al contempo, dell’unità dell’identità del suo protagonista: «Fra identità e narrazione […] c’è infatti un tenace rapporto di desiderio» (ibidem).  

Occorre soffermarsi a capire come la narrazione risponda al desiderio di ricevere un «ritratto di sé» e perché questo possa avvenire solo attraverso la mediazione dell’altro. L’immagine di sé in cui ciascun individuo desidera potersi riconoscere è una figura significante, capace di far emergere i tratti più importanti ma non per forza visibili di un percorso di vita e di unificare la pluralità degli elementi eterogenei che hanno composto un’esistenza: ciò, a condizione che il soggetto possa per l’appunto riconoscersi in simile immagine, che la possa riferire a sé, alla propria identità. 

Tale unità – Dilthey parla di «Zusammenhang des Lebens» – è precisamente ciò che la narrazione può conferire ai peripli esistenziali, dei quali l’Odissea è la rappresentazione per eccellenza. La narrazione sa infatti, grazie al suo «potere configurante» (Ricoeur 1983, 1984, 1985), donare quel carattere di unità, di compiutezza, di coerenza, di intelligibilità e di senso che manca, almeno in parte, all’esistenza, costituita da elementi molteplici, eterogenei e discordanti. Infatti, ci ricorda Hannah Arendt a cui Cavarero si richiama in modo importante, «è probabile che il “chi”, che appare così nettamente, così chiaramente agli altri, resti nascosto alla persona stessa, come il daimôn della religione greca che accompagna ogni uomo lungo tutta la vita, ma che resta sempre dietro di lui, osservando da dietro le sue spalle, visibile soltanto alla gente che l’uomo incontra» (Arendt, 1983: 236).  

Se è l’altro che può, meglio del soggetto stesso, cogliere il senso della sua storia e la figura della sua identità, delineandone il volto, ciò significa che ciascuno deve ricorrere all’altro per sapere chi egli stesso sia: «Se nel cuore di ognuno vibra la domanda “chi sono, io?” ed esige in risposta la propria storia narrata da un altro, quest’ultimo [è] il perno decisivo [dell’interrogazione]» (Cavarero, 1997: 176). Per questo, sostiene l’autrice di Tu che mi guardi, tu che mi racconti, ci raccontiamo proprio nella speranza che l’altro ci racconti in ritorno, alla seconda o alla terza persona.  

Il chi in questione è allora nella prospettiva descritta, «esposto, relazionale, altruistico» (Cavarero 1997: 116), in condizione cioè di esposizione e di abbandono all’altro. Ed è proprio tale esistenza espositiva e relazionale che «vuole e dà, riceve e dona, qui e ora una storia irripetibile in forma di racconto» (idem: 114). Il chi, non posseduto dal soggetto stesso, dipende così ineludibilmente dall’altro, dalla sua restituzione, che ha forma di narrazione e di dono, in quanto risposta a un desiderio profondo che non può essere soddisfatto al di fuori di una relazione interpersonale. In tale ottica, alle etiche e alle politiche universalistiche e individualistiche focalizzate sul che cosa, Adriana Cavarero contrappone un’etica centrata sul chi, nella sua relazionalità costitutiva.  

Il racconto, in quanto «imitazione creatrice» (Ricoeur, 1985) non si limita peraltro mai a riprodurre il volto dell’individuo, ma lo rappresenta sempre così come può essere visto: svela ciò che la persona è stata, ma anche ciò che potrebbe essere, ciò che vorrebbe essere; al contempo manifesta e forma l’identità di un individuo, la sua «identità narrativa» (Ricoeur 1990).  

Il racconto della storia di un soggetto si muove infatti sempre tra descrizione e rivelazione: tra descrizione del già noto e rivelazione del non ancora conosciuto, di ciò che il soggetto è e di ciò che può essere ma ancora non riconosce di essere. Per avere un effetto rivelante (e trasformante), il ritratto che il racconto offre deve innanzitutto essere sufficientemente somigliante al soggetto, nonché accettabile, affinché l’individuo possa riconoscerlo come riferito a se stesso. Tuttavia, deve anche saper mettere in luce l’inedito, le figure di senso tracciate solo in filigrana nella trama della sua storia e rivelare così possibilità latenti ma non ancora (ri)conosciute, su cui poggiare la sua «identità narrabile» (cfr. Bernegger 2004).  

Il senso che la narrazione conferisce a un soggetto, via la sua storia, è allora tanto fragile quanto prezioso, tanto commuovente e catartico quando si dà, come nel caso di Ulisse alla corte dei Feaci, quanto doloroso nella sua assenza, quando viene a mancare, o quando si dà in una forma non desiderabile. 

Il pianto di Ulisse mentre ode la propria storia narrata dall’aedo, pianto di commozione e gratitudine, sembra essere il prototipo di un racconto azzeccato, giusto, capace di generare riconoscimento e trasformazione. Ma il ritratto, la narrazione offerti all’altro possono anche essere «doni avvelenati», quando l’efficacia narrativa sia utilizzata in un’ottica non beneficente, o nel caso in cui manchi l’attenzione per l’unicità dell’individuo, al punto che questi non può riconoscersi nel racconto che parla di lui, o in esso non vuole riconoscersi, pur essendo forse costretto a identificarsi. 

Così accade infatti talvolta nel contesto della cura, dove non sempre viene prestata la dovuta attenzione all’impatto del racconto sul soggetto di cui si parla; dove non sempre i professionisti, che restituiscono alla persona malata un’immagine di sé non ancora conosciuta e perlopiù non desiderabile, testimoniano la responsabilità narrativa che la situazione richiederebbe; dove forse potrebbe essere fecondo ripensare ogni tanto a Ulisse, per rafforzare la consapevolezza di ciò che, nel bene e nel male, raccontare l’altro può comportare. 

Bibliografia

Arendt, Condition de l’homme moderne, Pocket, Paris, [1958] 1983.

Arendt, La vita della mente, il Mulino, Bologna, 1987.

Bernegger, «Identité narrative et mémoire. Esquisses en marge de l’herméneutique de l’identité personnelle de Paul Ricoeur», in A. Breitling, S. Ort (Hrsg.), Erinnerungsarbeit. Zu Paul Ricoeurs Philosophie von Gedächtnis, Geschichte und Vergessen, Berliner Wissenschafts-Verlag, Berlin, 2004, pp. 117-24.

Bernegger, «Tu che mi guardi (e giudichi), tu che non mi racconti. Narrare per meglio comprendere, sé e l’altro», in Sentieri nelle Medical Humanities, www.rivista-smh.ch, 24 marzo 2023.

Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano, 1997.

Omero, Odissea, trad. it. di Ippolito Pindemonte, Società tipografica editrice, Verona, 1822. 

Ricoeur, Temps et récit I, II, III, Seuil, Paris, 1983 / 1984 / 1985.

Ricoeur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990.

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