Speranza nella disabilità o nella vulnerabilità
Un racconto Medical Humanities
Alla fine di ogni Accademia si richiede alle partecipanti e ai partecipanti di elaborare un testo libero su un tema a scelta, sulla base delle riflessioni sviluppate nel percorso. Non ci sono regole “accademiche” da seguire, solo una, esistenzialista: scrivere su qualcosa che si sente nella mente e nel cuore, che possa essere un gesto di cura. Nel tag “Accademia” condividiamo alcuni di questi elaborati sviluppati nelle nostre Accademie.
14 Ottobre 2024 – Accademia, Disabilità, Dolore, Medical HumanitiesTempo di lettura: 15 minuti
14 Ottobre 2024
Accademia, Disabilità, Dolore, Medical Humanities
Tempo di lettura: 15 minuti
Una pioggerellina sterile aveva iniziato a cadere sui tetti in lamiera degli edifici del porto, così leggera che a malapena rinfrescava le tante aiuole di Dublino. La giornata era trascorsa in modo anonimo e Giona sedeva per terra con lo sguardo fisso sulle acque del Liffey tinte di verde, quel giorno, in onore di San Patrizio. Le gambe incrociate nella posizione del loto, le mani poggiate sulle ginocchia doloranti. Era sorpreso da quante volte, quasi sempre in modo inconsapevole, si era trovato a scrutare quelle gambe, studiarne l’aspetto e la consistenza,
in quella metamorfosi dannatamente innaturale che gli era stata predetta.
Le strade quel giorno brulicavano di ragazzi dalle chiome rosso oro e carnagione chiara, studenti che dal Trinity college si dirigevano a passo spedito verso Temple Bar, il quartiere dei pub, dove, tra artisti di strada e pinte di Guinness, la vita appariva così leggera. Ma non per lui. Giona pensava, contemplando il lento fluire del fiume, in contrasto con il ritmo incessante dell’ennesima ballata folk irlandese in lontananza.
E con l’acqua che scorreva anche la mente sembrava più vuota, in un misto di rabbia e gratitudine.
Dopo il terzo bicchiere aveva deciso di lasciarsi alle spalle la musica del Brazen Head, per trovare altro conforto su quel terreno umido. Uscito dal Pub più antico d’Irlanda, si era incamminato barcollando sulla R148, lungo la sponda destra del fiume, fino a superare O’Connel Bridge per arrivare a Point Village, proprio di fronte al porto. Tra i capannoni industriali e le navi ormeggiate si era bloccato, la visuale sulle Docklands era impagabile, fabbriche riqualificate in appartamenti all’ultima moda. Il fiume, il tramonto, un connubio perfetto per meditare.
D’un tratto, come apparsa direttamente dalle acque, lei gli si avvicinò con passo deciso. Aveva i capelli corti nero corvino a contrastare perfettamente il viso ovale pallido, il corpo agile e sinuoso di una ballerina di Flamenco. Gli cinse le braccia intorno al collo senza dire nulla. Lo fissò per alcuni istanti che a lui sembrarono eterni. «Io non ti lascio andare Giona!». Anche questa volta si disse che non poteva essere solo frutto della sua immaginazione. Le visioni erano iniziate alcuni anni prima ma Frida sembrava essere da sempre parte della sua vita. Nei suoi pensieri più reconditi la considerava come una madre, quella che sentiva di aver perso nel labirinto della malattia. Frida era sempre con lui, compariva all’improvviso e fino a quel momento non aveva mai parlato. La sua sola presenza cambiava il corso delle sue azioni, lo manipolava e, ora che il suo viaggio aveva finalmente avuto inizio, lei sentiva forse di perdere il controllo su di lui?
Prima di tornare nella capitale, Giona aveva visitato Skellig Island e il suo monastero, luogo da cui ha inizio la “linea sacra di San Michele”, una retta immaginaria che si estende dall’Irlanda ad Israele, lungo la quale sono costruiti sette santuari dedicati alla figura dell’Arcangelo difensore della fede cristiana. La leggenda vuole che questa linea sia il risultato del colpo di spada che San Michele inflisse a Satana per ricacciarlo all’inferno. Giona ne era venuto a conoscenza durante una visita al Louvre quando, davanti al dipinto di Raffaello “San Michele e il Drago”, si era ripromesso di visitare quei luoghi sacri in sette tappe, in sette anni. Anche lui doveva affrontare il suo drago e sconfiggere il senso di colpa per quella malattia, lasciarsi alle spalle il lavoro estenuante, i dolori del fisico e della mente, lasciare Frida e la sua presenza tanto opprimente.
Senza pianificare nulla aveva preso un aereo per Dublino e, noleggiata un’auto economica, si era diretto verso il Kerry, la contea sulla sponda opposta dell’isola. Una piccola imbarcazione di pescatori lo aveva portato sulla riva a nord dell’isolotto dove, a picco sul mare, sorgeva il “santuario di Michael”, costruito in ricordo dell’aiuto che Michele diede a San Patrizio per sconfiggere le forze del male.
La trasformazione richiede un periodo di prova, eppure da un momento all’altro la malattia diventò il suo tutto.
Una dimensione che aveva scelto come sua, nella professione a cui aveva prestato giuramento, un rapporto schizofrenico di qua e di là del guado, medico e paziente, totalizzante e dissociante allo stesso tempo. Aveva impiegato due lunghi anni per metabolizzare la “cosa”. Giona ripensava a quei momenti con una strana scintilla negli occhi che nemmeno Frida riuscì a percepire. Due anni sono il tempo in cui un bambino, dopo aver imparato a camminare, a sviluppare il concetto di verticalità, comincia a sentire e riconoscere il suo io e lo manifesta disegnando un cerchio, separando il proprio essere dall’ambiente circostante.
Esplora i limiti, si afferma.
Giona aveva imparato a convivere con la sua malattia, aveva imparato a lasciare andare i fantasmi del passato, le aspettative degli altri, a vivere i momenti, le piccole gioie di ogni giorno con nuova speranza. Almeno lo credeva. La diagnosi e quello che ne seguì sembravano solo un lontano ricordo, eppure Giona si portava dentro la sofferenza di quel periodo, tatuata sul cuore, la delusione negli occhi della madre, la disperazione che si era impadronita della sua anima. Si alzò per raggiungere il corso d’acqua, quale finale migliore per la sua vita così complicata? Frida lo seguì.
Titubante, avanzò di qualche centimetro, pronto a lasciarsi andare. La riva destra del fiume, con i suoi morbidi agglomerati di sabbia fine, era la carezza più dolce che avesse mai percepito sulle sue gambe malate, destinate a restare immobili, nei luoghi e nel tempo. Quando fu immerso fino alle ginocchia si voltò verso Frida che lo fissava dall’argine del torrente. «Non ti lascio andare Giona, torna da me, torna da te».
Fiume, acqua che scorre e non si ferma mai, se fissi un punto in un preciso momento, quello è già lontano e non esiste più se non in un modo e in un luogo diversi. Non importa ciò che è stato e nemmeno cosa sarà. Ogni molecola d’acqua vive il presente una volta sola e poi, un’altra roccia da superare, un altro ramo da schivare.
Giona si destò, come risvegliato da un grande sogno, si mise a camminare a ritroso nelle verdi acque del Liffey, raggiunse Frida sulla riva e la baciò. Negli occhi il profumo di sua madre. Il ricordo di lei, leggero come le nuvole, profondo come il mare, svanì nel lieve tepore della sera.
«Ti lascio andare mamma» sussurrò, finalmente libero, finalmente vivo.
—
Certo, delle virtù teologali tu sei la più vicina, non per posizione presa, ma per destino. Lo spa- sanscrito, quel “ciò che tende verso una meta”. Ma quale sia la tua di meta, pochi lo capiscono, speranza. Ti ho chiesto di accompagnare ogni mio passo nel mondo fin da quando, come ogni bambino, ti guardavo con la meraviglia negli occhi. Mi hai preso per mano e abbiamo camminato insieme per le vie polverose di una “carretera” cubana, per i vicoli stretti dei quartieri di Bangkok e lungo le ridondanti scogliere irlandesi. Tornare a camminare, ogni volta.
Sono trascorsi quasi venti anni, venti lunghi anni di compagnia sincera, di disperazione e felicità, di progetti, successi, fallimenti e conquiste, come in una vita normale.
Che ti chiamino sclerosi multipla, o encefalomielite disseminata, nel duro lavoro in corsia io ti ho tenuta stretta, e ti ho perdonato per avermi scelto.
Come tu fossi un dono nascosto, un porto sicuro in cui essere obbligato a trovare riposo, di tanto in tanto, e serenità, per poi ripartire come una nave tra le onde. Perché le navi non sono fatte per stare in un porto.
Nei momenti di solitudine, in quella sala d’attesa dopo l’ennesima risonanza magnetica, mentre un passo a cadenza sdrucciola si avvicinava, una voce rauca, una brutta notizia, sei stata la mia ancora di salvezza, il mio respiro, senza più spazio per la paura.
La domanda è cosa farsene di una malattia così potenzialmente invalidante, a progressione incerta?
In quale processo mentale, o fisico, ha sede la vera elaborazione?
Eccola la tua meta, speranza come salute che non è solo benessere ma quotidiana capacità di adattamento, non solo resilienza ma interiorizzazione e accoglienza. Una diagnosi è difficile da accettare anche per chi è del mestiere, anche lui a perseguire forse un nobile scopo per dare un senso all’unica vita a propria disposizione, il tempo supplementare di una partita giocata ad armi impari. Deglutire ogni notizia negativa e vedere la bellezza dell’avere coraggio.
Il coraggio di vivere, nonostante tutto, non solo restare in attesa di quei Tartari che forse mai arriveranno all’orizzonte, là nel deserto davanti alla fortezza che ognuno si crea con il tempo.
La speranza nel processo di cura, nella guarigione dell’anima, non è un mezzo che si sforza di sublimare ogni aspettativa ma diventa l’amica alla quale ci si inchina, prendendola sottobraccio, si prosegue insieme.
Perché una malattia non è nient’altro che la metafora di un viaggio alla ricerca di sé nella propria essenza. Un viaggio nella guarigione.
E se non è guaribile, rimane sempre e per definizione comunque curabile, se cura significa evoluzione.
La speranza, vista come entità che tende ad una meta, deve poter dunque essere il frutto di una riflessione profonda sul senso che ogni briciolo di esistenza porta con sé, non solo nei percorsi di cura ma come parte integrante di ogni riflesso biografico, al quale gioco forza siamo tutti destinati. Nei rapporti di equilibrio emotivo all’interno della cerchia famigliare così come nelle relazioni all’esterno di essa.
Una malattia è e deve costituire sempre l’occasione per un cammino introspettivo alla ricerca di un altro equilibrio in cui potersi ritrovare in una nuova dimensione. Trasformazione che significa opportunità evolutiva unica. Di fatto c’è sempre un paziente ed un curante, ma quando i due si fondono, quale si trova nel posto migliore? Forse chi ha questa opportunità? o chi fa da spettatore in questo processo?
Fragile fortuna di esser finalmente entrambe le cose.
Ancora.
E ancora.
E ancora.
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Una risposta a “Speranza nella disabilità o nella vulnerabilità”
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Questa narrazione mi è piaciuta molto! L’ho trovata profonda e coinvolgente oltre che scritta con molta accuratezza. Mi auguro che ne scriverà altre, forse sulla malattia che patiscono i richiedenti asilo di Pasture, quella che Jean-Claude Métraux ha chiamato “la malattia del riconoscimento”.
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