Speranza

Una serie lungo la soglia della morte  

Questo articolo fa parte di una serie. Il contributo precedente è consultabile qui.  

Ho più volte espresso l’idea che il fondamento genetico della speranza consista nel fatto che il bimbo, che percepisce il bisogno in assenza della madre, attende fiduciosamente che il suo richiamo possa essere accolto e che la madre possa ritornare da lui per accudirlo, non solo perché lo ama e prova un sentimento empatico, ma perché trova nel bimbo un appagamento dei suoi stessi bisogni fisiologici e spirituali.

Il bimbo sicuro sa che la madre verrà e che la loro unione/relazione è costruttiva e benefica per entrambi, fa parte di un progetto di amore e di civiltà, costruito anche nell’attesa, nella rinuncia parziale e nella temporanea frustrazione.

La madre ed il bambino sono protagonisti di una commoventissima vicissitudine di reciproco soccorso, fondamento come dicevo di ogni speranza.  

La Pulsione di Morte può essere addomesticata, neutralizzata, essere posta non al servizio dell’odio e della disperazione, ma della capacità di attesa e di quella di star soli in modo creativo.

Del resto, questa speranza è la medesima in tutto il mondo animale, laddove una nutrice ed il suo cucciolo sono del tutto simili, identici forse ad una mamma con il suo bambino. Tale speranza informa poi tutta la vita di una persona, che diventando adulta svilupperà la propria identificazione a questo antico oggetto accudente ed umile, responsabile e grato, che misteriosamente cerca il bene comune. Allora di fronte alla morte l’individuo sa di avere portato a termine il proprio compito, e si appresta a congedarsi consapevole di avere combattuto la propria buona battaglia.  

Ernest Bloch ha elevato la speranza a principio informatore del nostro agire politico, sociale e culturale, individuando nel progetto marxiano – Ad ognuno secondo i propri bisogni – il modello della società futura da costruire. La storia ha indicato i limiti di questa speranza politica, che peraltro adeguatamente affrancatasi è diventata pietra angolare della Teologia di Moltmann. Quantunque possano essere utopiche le nostre speranze, non possiamo cessare di sperare di rendere questo mondo più accogliente per gli esseri umani (e non). Forse il morente ha una percezione più acuta della fragilità delle nostre speranze, e ne cerca di più persuasive, come dice Pietro a Gesù: «Dove andremo noi?…Tu solo hai parole di vita eterna».  

Infatti, la commozione che sempre ci suscita la lettura delle Beatitudini, Il discorso della montagna, ha forse a che fare con l’incertezza di potere altrimenti immaginare di dare compimento alla nostra insopprimibile e misteriosa speranza. La morte infatti ha sempre un carattere intimamente soprannaturale per la nostra sensibilità, come accadeva per i nostri lontani e primitivi progenitori, e noi cerchiamo di inserire la nostra esperienza nel mondo in un senso misterioso, che ci può trovare scettici e materialisti, oppure mistici e spirituali, ma non finisce mai di interrogarci.

Non possiamo lasciare questo mondo senza avere tentato di trovare questo senso, per quanto personale e oscuro possa apparire.

La morte più ancora della vita, e comunque la nostra morte e la nostra vita ci appaiono come un fatto cosmico per quanto piccolo e/o miserabile possa apparire.  

Qualunque vita umana infatti è stata una irripetibile per quanto mediocre esperienza e ricerca per lo più inconscia di senso, un unicum irripetibile che con i suoi limiti incide per sempre il tempo e la sua apparente e interminabile indifferenza. Questa continuità si contrappone alla insopportabile idea che la morte annienti le nostre vite, assimilandole ad un vuoto, ad una oscurità senza volto e senza differenze. Se un tempo l’al di là poteva essere immaginato come un prolungamento dell’esperienza mondana sottoposto alle stesse vicissitudini ed alle stesse leggi, collo sviluppo della nostra riflessione sulla morte abbiamo definito degli spazi in cui la morte lascia spazio all’eredità del defunto, al suo contributo a rendere più accogliente il nostro mondo, e con ciò alla sua piccola immortalità; in una dimensione ancora più spirituale abbiamo definito colla nostra vita e colla nostra morte degli originali spazi utopici di senso, di speranza e di consolazione, che ci sono e saranno stati modesti modelli per un perfezionamento delle nostre vite.  

Per intenderci, la morte di un migrante ci induce a sperare che possa trovare in qualche modo pace e consolazione, ma soprattutto ci stimola alla terrena accoglienza ed alla solidarietà, al perseguimento della giustizia e della pace tra gli uomini.

Questo è un modo per curare il morire, che ci viene ricordato da chi muore senza cura.

Questi morti, queste morti ci parlano, ci chiedono pietà e cura, spesso ci giungono attraverso gli spazi ed il tempo come nel sogno, senza che ne facciamo sensibile esperienza, o meglio come attraverso quella sensibile e particolarissima esperienza che è il sogno, che è appagamento allucinatorio/utopico del desiderio, ma soprattutto impulso/desiderio di dare senso, integrità ed armonia al mondo.

Non a caso nel sogno noi ritroviamo talvolta i morti, spesso i nostri morti, che ci testimoniano la loro misteriosa presenza nei nostri cuori, quella che ho chiamato l’immortalità degli oggetti d’amore, che testimonia della prevalenza del nostro amore sulla nostra ambivalenza, veicolata dal nostro senso di colpa, dal desiderio di riparazione e dall’impulso al perfezionamento presente oscuramente nel nostro Ideale dell’Io. Il ruolo della illusione, il ruolo della speranza, qualunque esse siano, sono fondamentali nel nostro vivere e nel nostro morire, se e proprio in quanto le costruiamo e le abbiamo costruite fin dall’inizio (la fiducia nelle figure protettive dell’infanzia), e sono tutt’altro che vane se e perché hanno informato la nostra vita, l’hanno orientata, hanno testimoniato del senso e del volto che abbiamo cercato di dare al mondo, al mondo della vita e del morire.  

Ricordo ancora una volta di più che accostata al fianco della chiesetta del cimitero di Raron, che domina su di una roccia l’antico villaggio walser nel Canton Vallese franco-tedesco, sta una vecchia lapide su cui sono incisi i versi:  

Rose, oh reiner Widerspruch,
Lust
Niemands Schlaf zu sein
Unter soviel Lidern.

Forse: Rosa, oh pura contraddizione, desiderio di essere il sonno di nessuno, sotto così tante palpebre.  

 

L’epitaffio di Rilke è in verità intraducibile, salvo che caducità, purezza, quiete, destino comune, mistero, sono nella poesia di Rilke, nel suo vivere e nel suo morire.  

Bibliografia

D. Winnicott, I bambini e le loro madri, Cortina, 1996.

E. Bloch, Il principio speranza, Mimesis, 2019.

J. Moltmann, L’etica della speranza, Queriniana, 2012. 

Vangelo secondo Matteo, La Bibbia Concordata, vol. 8, Mondadori, 1982. 

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