Un commento sul caso Indi Gregory
Il becco del pellicano
23 Novembre 2023 – Osservatorio, EticaTempo di lettura: 4 minuti
23 Novembre 2023
Osservatorio, Etica
Tempo di lettura: 4 minuti
Il fatto
Indi Gregory, la neonata britannica affetta da una malattia mitocondriale terminale, cui erano stati tolti i “trattamenti disproporzionati” che la tenevano in vita nel reparto di Terapia intensiva neonatale del Queen’s Medical Centre di Nottingham, è deceduta il 13 novembre in un hospice dove era stata trasferita per alleviarle le sofferenze. La decisione medica di “distaccare le macchine” era stata confermata dai tribunali britannici senza essere riusciti a ottenere il consenso dei genitori. Alcuni giorni or sono, il Consiglio dei Ministri Italiano, in una riunione urgente e straordinaria, aveva accordato a Indi Gregory la cittadinanza italiana per permetterle di essere curata all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma che si era offerto di continuare le cure invasive.
Il commento
Da ormai molti anni l’Inghilterra ha una visione etica e giuridica “meno accanita” attorno al concetto della “disproporzionalità delle cure”, se confrontato con l’atteggiamento clinico in atto nei Paesi europei e non soltanto dal punto di vista biomedico, ma anche da quello socio-culturale. In teoria, quando si affronta un dilemma etico, l’aspetto determinante è la decisione presa dalla persona interessata (il rispetto della sua autodeterminazione), ma, nel caso di Indi Gregory, non possiamo saperla a causa della sua età. Inoltre, naturalmente, non è possibile ricorrere alle sue “direttive anticipate”. Le volontà non esprimibili dalla bambina sono quindi “rappresentate” dai genitori e, di regola, sono difese dai curanti che hanno comunque il dovere di rispettare la cosiddetta “proporzionalità” fra benefici e malefici di ogni intervento medico, considerando in primo luogo la sofferenza di chi stanno curando: occorre evitare di prolungare l’agonia dei pazienti quando la medicina è diventata futile, inutile allo stesso ammalato.
A nostro avviso, per aiutare i medici, e anche i giudici, nelle situazioni psicologicamente complesse, come quelle descritte, sarebbe utile poter disporre di direttive e procedure etiche internazionali e interdisciplinari che aiutino a rispettare semplicemente i diritti umani, senza dimenticare le diversità antropologiche delle diverse culture. Si eviterebbero così l’arrogante mancanza di collegialità – com’è capitato all’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma (che, ricordiamo, è di proprietà della Santa Sede) – e le decisioni insensate del Governo italiano, che risultano in definitiva poco rispettose della dignità residua nel fine-vita di una bambina con una malattia senza alcuna possibilità terapeutica e del tragico lutto dei suoi genitori.
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3 risposte a “Un commento sul caso Indi Gregory”
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“[…] senza dimenticare le diversità antropologiche delle diverse culture”. Concordo con il commento del Prof. Malacrida che sottolinea le complesse tensioni in gioco nel caso di Indy, evidenziando le sfide cliniche, decisionali, comunicative, professionali e politiche. Ma sono forse quelle antropologiche le tensioni che questo caso mette in luce che hanno ricevuto meno attenzione.
Nell’avvicinarsi alla fine della vita, molte famiglie aspirano alla serenità per i propri cari. Ma esiste un dissenso sulla concezione di una “buona morte”. Per alcuni/e, è cruciale avere la percezione di aver lottato fino all’ultimo. Questo risulta ancora più importante per chi deve raccontare la morte di una persona cara in luoghi dove le terapie più avanzate non sono accessibili. L’idea di “arrendersi”, malgrado la disponibilità tecnologica, è vista come un errore inconcepibile. Allo stesso modo, ci sono famiglie per le quali preservare la vita è un imperativo a ogni costo. Queste sfumature culturali influenzano profondamente il modo in cui affrontiamo la fine della vita e viviamo con il suo ricordo.Mi è tornato in mente un articolo del 2010 di Bob Truog sul New England Journal of Medicine. Bob, pediatra, racconta un’esperienza personale con un bambino di 2 anni nato con un grande encefalocele frontale. Sopravvissuto all’asportazione chirurgica, il bambino rimase neurologicamente gravemente compromesso. Nonostante l’équipe clinica consigliasse comfort e palliazione, i genitori rifiutarono. Desideravano che fosse fatto tutto per tenere il bambino in vita. Una sera, il bambino giunse in terapia intensiva, pallido e inerte. Bob, consapevole del rifiuto del padre di non rianimare, ordinò il tentativo. Dopo 15 minuti di sforzi vani, dichiarò la morte del bambino, non senza che il team manifestasse il malessere per ciò che era appena successo. Ma il padre, mentre stringeva il figlio a sé, ringraziò Bob: “Vedo che ci avete provato fino in fondo, che non vi siete arresi”.
Riflettendo sul fatto se sia o meno etico offrire terapie clinicamente non indicate, Bob giunge a conclusioni profonde. Pur ponendo al centro gli interessi del paziente, riconosce che alla fine della vita questi possono diminuire, mentre quelli dei familiari si intensificano. Le famiglie, spesso, portano sulle spalle per anni gli strascichi psicologici e i rimorsi delle decisioni sul fine vita dei loro cari. In tali circostanze, gli interessi di chi sopravvive guadagnano priorità. Quando Bob e il suo team tentarono la rianimazione, erano convinti che il bambino fosse al di là della sofferenza, mentre i bisogni emotivi dei genitori avessero rilevanza clinica ed etica. Inoltre, accettare – raramente – di offrire terapie non clinicamente appropriate, in assenza di sofferenza da parte dei pazienti, trasmette un messaggio alle comunità: non tanto che i medici siano coartati a praticare procedimenti contrari al buon senso, quanto che gli ospedali si impegnano a trattare pazienti e famiglie con rispetto e attenzione alle loro esigenze uniche. E il messaggio che arriva ai colleghi è che, in rari casi, fornire terapie non indicate può essere un atto autentico di cura e compassione, ammesso che non causino ulteriore sofferenza ai pazienti.
In questo contesto, l’approccio giuridico applicato al caso di Indy, guidato da diversi precedenti legali (che hanno un peso determinante in un sistema giuridico che si basa sul modello di “precedente giurisprudenziale”), non concede spazio sufficiente a tali considerazioni. Questo approccio impone limiti netti, e non consente di ponderare adeguatamente aspetti clinici, etici, culturali e psicologici nelle decisioni di fine vita. Aspetti che, come afferma il Prof. Malacrida, devono necessariamente essere contemplati da qualsiasi direttiva su questo tema.
Truog RD. Is it always wrong to perform futile CPR? N Engl J Med. 2010;362(6):477-479. doi:10.1056/NEJMp0908464
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Mi permetto di aggiungere un commento su un aspetto forse marginale ma non meno importante che condiziona il dibattito e cioè il fatto che questa tragica situazione ha riguardato un bambino molto giovane. Questo accresce e non di poco la componente emotiva ( a volte anche sensazionalistica) del dibattito. La morte di un bambino, nella società occidentale attuale è certamente considerata un evento totalmente “innaturale”. eppure non dovrebbe sorprendere nessuno sapere che, fino a solo 100 ani orsono questo non era così. Recentemente ho potuto leggere che negli anni 30 del 900 la mortalità a un anno di vita, nelle vallate dell’arco alpino era del 23%: un bimbo su 4 (cf. ref.). Se teniamo conto del numero medio di figli nelle famiglie dell’epoca possiamo senz’altro affermare che la maggioranza di esse viveva almeno una volta questa esperienza che rappresentava quindi la normalità. Ed è stato cosi per millenni. Questo cambiamento radicale di paradigma in meno di un secolo lascia per forza di cose ancor più disorientati. Mi interrogo a volte se sia (e come lo sia) possibile, in quest’epoca di mutamenti repentini (non solo in ambito sanitario) continuare ad applicare principi e valori del pensiero classico che sono sopravvissuti attraverso i secoli. Senza scomodare Aristotele o Platone, chiedo provocatoriamente, soprattutto alla luce di quanto ci racconta Bob attraverso il commento di Marta Fadda: come la metterebbe Kant con il suo “imperativo categorico” di fronte alla diversità e all’individualità di ogni sofferenza. Condivido la necessità di aiutare chi si prende cura dei pazienti e chi è chiamato a far rispettare le normative, attraverso linee guida e direttive. Dobbiamo però restare umili e coscienti del limite della durata temporale di questi strumenti. L’impressione mia è che le nostre riflessioni e anche quelle del legislatore corrano sempre molto più lente rispetto all’evoluzione della conoscenza scientifica e delle acquisizioni tecnologiche, rendendo quindi la definizione delle norme, giuridiche ma anche morali sempre più difficile.
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Referenza al commento precedente: M.A. Ferrari “Assalto alle Alpi”. Ed. Einaudi. Le Vele 2023.
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