Un dio disabile
Prima parte
19 Agosto 2024 – DisabilitàTempo di lettura: 11 minuti
19 Agosto 2024
Disabilità,
Tempo di lettura: 11 minuti
Sono passati trent’anni da quando Nancy L. Eiesland pubblicò il libro The Disabled God. Toward a Liberatory Theology of Disability (Nashville TN, Abingdon Press, 1994). “Il Dio disabile” potremmo tradurre. E come sottotitolo: verso una teologia della liberazione dalla disabilità. Oppure verso una teologia della disabilità che sia una teologia di liberazione, una teologia liberatoria. Il libro è stato tradotto in tedesco, Der behinderte Gott. Anstöße zu einer Befreiungstheologie der Behinderung, nel 2018 per Echter Verlag, Würzburg. Non ha ancora avuto ospitalità in lingua italiana, perché è un libro che scotta, sia per credenti che per atei o agnostici, sia per cattolici che per laici.
È un testo che chiama dal confine estremo, che invoca udienza contro i pregiudizi: i pregiudizi del Dio potente e della devozione gloriosa, da un lato, il pregiudizio del cittadino autonomo, strapieno di diritti e disperatamente solo, dall’altro.
Eiesland era nata nel 1964 e morì nel 2009, non per la dura menomazione che l’aveva segnata dalla nascita provocandole dolori cronici (un difetto congenito alle anche), ma per un cancro ai polmoni. Subì una lunga serie di interventi ortopedici, usò una wheelchair, ma con una straordinaria tenacia si laureò e raggiunse una posizione universitaria. Insegnò alla Candler School of Theology presso l’Emory University di Atlanta, Usa. Si occupò teoreticamente di ciò che le era capitato e preferì la denuncia solidale delle esclusioni sociali alla commiserazione nascosta.
Sono più di 40 milioni negli Usa i cittadini con disabilities. Uno Stato nello Stato.
E Nancy Eiesland minacciò per così dire la “secessione” con la delicatezza di una donna fragile ma testarda.
In sei capitoli, The Disabled God documenta i passi avanti compiuti dai movimenti per i diritti dei diversamente abili, destruttura le parole d’ordine con cui l’impairment era qualificato un deficit del singolo soggetto e corrode le regole d’ingaggio con cui il mondo biomedicale si sentiva autorizzato ad occuparsi delle patologie in esclusiva e si attribuiva la potestà di decidere forme e limiti dei trattamenti. Dando invece la parola direttamente alle persone sofferenti, alle loro famiglie e care-givers, Eiesland ottenne risultati memorabili.
- In primo luogo l’Autrice difende argomentativamente il ruolo dei gruppi svantaggiati e i loro progetti pubblici di liberazione. La condivisione d’esperienze, la rivendicazione pubblica e leale delle loro istanze, la direzione impressa alla marcia per il riconoscimento di cittadinanza non sono obiettivi scontati, si raggiungono invece attraverso lotte dure e scontri culturali, analogamente a ciò che era avvenuto per i movimenti etnici anti-razzisti, femministi, di difesa degli omosessuali e ora LGBTI+. Il modello di vita verso cui puntare non è quello idealizzato dal marketing dei prodotti di bellezza: un soggetto giovane, bello, sorridente, atletico, ricco, motorizzato. Il modello va piuttosto cercato a partire dalle originali, imprevedibili biografie di maturazione dei singoli. Ogni cittadino che ha una difficoltà a inserirsi nei ritmi produttivi cerca la sua strada, la sua iniziazione, il suo destino. Non imita e non scimmiotta gli influencer più glamour e sexy.
- In secondo luogo il discorso biologico è finalmente detronizzato. Non solo la medicina dell’organo guasto non riesce a comprendere il vissuto di un’esistenza “altra”, ma produce patologie, perché applica (tutto e solo) ciò che è tecnicamente disponibile, usurando le forze morali e culturali che intendono ribaltare i princìpi della convivenza e non trasformare invece i sofferenti esclusivamente in perenni consumatori di pastiglie, analgesici, sedie a rotelle e protesi ortopediche.
- Se la psiche non è separabile dal corpo, nemmeno lo spirito è separabile dalla mente. Non sono le neuroscienze a offrire un significato all’esistenza e non è il sapere clinico a indicare i valori per cui orientare e spendere la vita oppure interromperla. Ciò non riguarda solo famiglie, associazioni, ospedali e residenze per anziani e anziane. Riguarda anche, per chi professa una fede religiosa, la sua Chiesa. La Chiesa, come la città, deve abbassare le barriere che impediscono una reale solidarietà. Non ci può essere un divieto, per chi ha disabilità, di diventare pastore o pastora d’anime. Non ci può essere un rito liturgico, per compiere il quale con efficienza e rapidità, vengono espulsi dal tempio coloro che disturbano (come i bambini, i soggetti autistici, chi ha problemi mentali), quelli che “tanto non capiscono” (e che vengono considerati fedeli di serie B), quelli che ingombrano con la carrozzina, perdono urina, salivano in eccesso o hanno cattivi odori.
Il bon ton dei borghesi “normali”, obbedienti, felici e produttivi (come li dipinse Huxley ne Il Mondo Nuovo) non vale per l’etica della vita buona, che infatti non è un’etichetta e anzi rompe le etichette con cui i conservatori difendono le loro ricche pensioni e chiudono le loro anime nei caveaux a doppia sicurezza.
Costoro dimenticano che il cosiddetto “normo-abile” è un “temporaneamente abile”, poiché tutti siamo destinati a degenerare in qualche performance fisiologica (fino alla paralisi funzionale) o in qualche apparato anatomico (fino all’inestetismo e alla bruttezza), finché non avremo trovato qualche life expanding technology (un sostegno vitale permanente) e una quality enhancement technology (un presidio per il miglioramento e potenziamento qualitativo).
Fino ad allora, fino a che diventeremo immortali, noi abbiamo a che fare con dolore, malattia, rischi e separazioni. E questo tutti i giorni, se facciamo un serio esame di coscienza! Il “disabile” è quindi maestro di speranza e non un partner impresentabile ai salotti buoni della TV (salvo quando si raccolgono fondi). Non si reagisce al patimento cronico né col diniego (va tutto bene, quello è uno sfortunato…facciamo gli scongiuri), né con l’imperativo di diventare eroi (il malato che sopporta tutto, che non si lamenta mai, che benedice addirittura le prove della sorte), né con l’illusoria speranza in qualche miracolo religioso o scientifico (guarda quello! ha avuto successo, ha miracolosamente il portafoglio pieno, grazie alla pubblicità!). E nemmeno sentendosi in colpa, come se il male ce lo fossimo meritato. Siamo tutti, in realtà, corpi non convenzionali. I guru, che hanno raccomandato di pensare camminando o scalando la roccia o saltando con l’asta, dovrebbero riscrivere le loro regole, rivolgendosi a chi non può camminare e ha imparato a vivere e pensare da seduto, oppure in acqua, oppure su carrozzine di ultima generazione guidate dalla bocca, dalla voce, dal volto, dal respiro.
Mostreremo in un prossimo articolo le conseguenze di questo approccio per la teologia morale. Sin d’ora affermiamo che le Chiese non sono santuari in cima a una collina e nemmeno conventi esclusivi. La Chiesa ha da imparare dai soggetti con disabilità tanto quanto può aiutarli e accoglierli nella vita pastorale e sacramentale. Il Signore Gesù spezzò il pane nell’ultima cena e certi corpi sono stati “spezzati” da un incidente. Dio non vuole il male e non mette alla prova la fede di nessuno con questi metodi infernali. Gesù guariva quanti poteva e in ogni caso andava loro vicino, li prendeva per mano anche quando i farisei escludevano i lebbrosi e gli impuri dal tempio.
Credo che molti fratelli e sorelle malati e costretti a dipendere da un congegno tecnico trarranno conforto leggendo la storia di Eiesland e guardando la vita, laica ed ecclesiale, politica e religiosa, come la guardava lei stessa. Senza passività lagnosa. Le disabled persons sono diverse le une dalle altre e non sopportano categorie che le inquadrino rigidamente allo stesso modo e le confinino nei medesimi ghetti per quanto profumati, efficienti, new age.
Chi entra in una Chiesa cristiana vede un crocifisso, un disabile grave, praticamente tetraplegico, con la testa che penzola da un collo ormai stanco, con chiodi infissi tra carne e legno.
Dio ci è passato. Anzi Dio resta eternamente così e quando risorge reca ancora le ferite sugli arti e sui fianchi. Posso pregarlo solo se ha vissuto anche lui l’handicap mortale, se gli è capitato di cadere per terra, se lo hanno chiamato storpio (“crippled”). Eiesland scrive che la disabilità non è solo un fatto laterale, ma investe l’intera persona e ci impone di considerare come “nostri” i vissuti di debolezza, caducità, vergogna, rabbia.
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