Un’eredità invisibile
Etnografia dell’esperienza di malattia: il caso della Malattia Leventinese
9 Settembre 2024 – Ricerca, Medical HumanitiesTempo di lettura: 15 minuti
9 Settembre 2024
Ricerca, Medical Humanities
Tempo di lettura: 15 minuti
La Malattia Leventinese rappresenta un campo di ricerca inedito a livello antropologico, una realtà poco nota sia agli studiosi che agli abitanti del Canton Ticino. Conosciuta in ambito biomedico come Dominant radial drusen o Doyne honeycom retinal dystrophy, essa è un’affezione ereditaria della retina che presenta i suoi sintomi attorno ai 30-50 anni e che continua a progredire con l’avanzare dell’età, senza mai produrre una cecità completa, ma influendo notevolmente sulla vita della persona afflitta. L’origine di questa mutazione genetica risale ad un antenato comune, vissuto intorno all’anno zero e probabilmente abitante della Valle Leventina, passaggio strategico per l’attraversamento delle Alpi. La scoperta e l’interesse per questa patologia è relativamente recente. È stato grazie al Professor Francis Munier, allora dottorando all’università di Losanna, che nel 1995 si iniziò la ricerca, un vero e proprio tour della Svizzera, per poter esaminare persone afflitte dalla Leventinese, al fine di scoprirne le cause ed eventuali cure. Oggi questa forma di cecità non è guaribile, motivo per cui la Malattia Leventinese si è diffusa in tutto il mondo.
In Svizzera sono circa un centinaio le persone che vivono, o meglio che hanno imparato a convivere, con questa malattia sempre più debilitante.
Lo scopo principale della mia ricerca etnografica nell’ambito della tesi di master è stato quello di indagare come questa patologia influisce sulla vita delle persone, in che modo la dimensione della quotidianità viene modificata, come viene percepita dalle persone a cui è stata diagnosticata e dalle famiglie coinvolte.
Partendo da questo caso concreto si è tentato di portare la riflessione ad un livello più profondo, mettendo in luce come l’esperienza di malattia si intersechi a dimensioni culturali del contesto in cui si vive, in questo caso il Ticino.
La cornice teorica a cui ho fatto riferimento è quella istituita dalla produzione del principale fondatore della scuola di Harvard, Arthur Kleinman. L’esperienza vissuta rimane al centro dell’attenzione. Durante il lavoro di ricerca è stato quindi fondamentale avvalersi di testimonianze di persone afflitte dalla Malattia Leventinese, proprio per ricostruire, attraverso le narrazioni, la dimensione della illness, ovvero il significato che l’esperienza di sofferenza assume per chi la vive in prima persona (Kleinman, 1989, 2019). Grazie alle interviste semi strutturate proposte all’interno di questa etnografia, si è cercato di ampliare i punti di vista, al fine di non cadere nel pericolo della generalizzazione e del riduzionismo. Ogni persona che ho avuto modo di conoscere e di intervistare ha vissuto e vive tuttora la propria esperienza di malattia, producendo significati personali ed estremamente soggettivi.
La Leventinese è una malattia che si insinua in ogni aspetto della vita. La patologia si trasmette all’interno della famiglia, un ambiente che si trasforma in uno spazio intimo, sicuro e curativo, ma allo stesso tempo in un luogo pieno di dolore e sensi di colpa. Sentimenti che scaturiscono dalla dimensione ereditaria e dalla decisione sofferta di conoscere o non conoscere la propria diagnosi o quella dei figli. Una scelta difficile da cui nascono molte riflessioni, ognuna con le rispettive risposte, sostenute da diverse motivazioni. Dopo un iniziale confronto con il proprio sé e le proprie perdite, dovute alla comparsa dei sintomi, è nel nucleo familiare che si affrontano le prime consapevolezze e che si producono nuovi significati di malattia.
Viene quindi a crearsi un continuo confronto tra la dimensione del sé e quella domestica, un dialogo che dà il via ad un percorso più o meno lungo verso la conoscenza dei propri limiti, la presa di coscienza delle perdite, delle riscoperte, fino ad arrivare eventualmente all’accettazione della malattia.
L’accettazione non è da considerarsi come un punto di arrivo, ma come la ricerca continua di un equilibrio. È proprio grazie all’aiuto quotidiano, a piccoli gesti, all’assistenza fornita da associazioni, che si mette in atto un processo di cura. Una cura intesa a livello antropologico, capace di colmare l’assenza di una terapia che possa condurre ad un miglioramento o alla guarigione. Se la terapia presuppone la presenza di una malattia, la cura può esistere anche con l’assenza di una patologia: l’espressione “prendersi cura” della propria persona o di qualcuno, attraverso piccoli gesti o parole, esemplifica bene questo concetto.
La cura diventa quindi una presenza di umanità (Pizza, 2005), un legame relazionale di natura sociale all’interno del quale l’intimità e la dimensione corporea sono al centro dell’attenzione.
Anche se si raggiunge una fase di accettazione ed abitudine, l’incomunicabilità del dolore e della propria esperienza di sofferenza nel momento del confronto con la società producono sempre dei malintesi e delle incomprensioni. Sono proprio gli incontri con gli altri a far nascere delle dinamiche spiacevoli che spesso portano a sentimenti di rabbia e frustrazione. Questo è dovuto non solo alla natura solitaria del dolore, della sofferenza e della malattia, ma anche al limite fisico che si traduce nell’incapacità di riconoscere le persone che si hanno di fronte. Gli afflitti, per reagire alle proprie difficoltà, mettono in atto strategie ed adattamenti, per difendere il loro status di ipovedenti, per farsi vedere in quanto tali e soprattutto per dimostrare di non essere completamente ciechi. Durante questa analisi più volte sono state descritte dagli intervistati tattiche psicologiche, sociali e fisiche adottate per cercare di ovviare il proprio danno visivo, ma anche per difendere la propria condizione, perché chi ha questa patologia, una luce la vedrà sempre. Riprendendo il titolo dell’etnografia ecco, dunque, che nell’esperienza di malattia della Leventinese si inscrive un altro aspetto legato all’invisibilità: l’ipovedente è invisibile all’interno della nostra società.
Molti degli intervistati hanno più volte rimarcato il disagio di non riuscire a riconoscere gli altri, proprio perché la malattia impone una barriera alle loro interazioni sociali. L’atto stesso di salutare, sia che venga attuato o meno, diventa quasi un pericolo: se si decide di salutare, non si sa bene chi si ha di fronte, di conseguenza se è uno sconosciuto si rischia di creare disagio, mentre se è una persona nota bisogna capire chi è e come continuare la conversazione; se invece la scelta è quella di non salutare si avrà sempre il dubbio di avere ignorato un proprio conoscente, rischiando quindi di risultare antipatico/a o maleducato/a. L’afflitto deve dunque mettere in atto delle strategie per cercare di limitare il problema, ciò nonostante questa difficoltà pesa molto nella vita degli afflitti. Spesso situazioni apparentemente innocue si possono ingigantire, generando rabbia e frustrazione a causa della mancanza di conoscenza e di sensibilità degli altri.
Per tentare di individuare una soluzione a questa problematica è necessario porre nuovamente al centro dell’attenzione chi è stato escluso. È infatti importante comunicare, essere aperti al dialogo ed ascoltare coloro che queste situazioni le vivono quotidianamente.
È proprio per questo motivo che oggi la collaborazione tra antropologia e biomedicina è più necessaria che mai.
La prova emerge a livello esplicito da questa etnografia, tuttavia è nascosta in modo implicito anche all’interno di ogni interazione che ho avuto con le persone afflitte. Tra loro ho notato una grande disponibilità, gentilezza e sensibilità nella partecipazione a questo progetto.
L’elemento che ho percepito maggiormente è stato il bisogno, la necessità di parlare con qualcuno, di raccontarsi, di condividere la propria esperienza e la propria storia di vita.
È così che il momento dell’incontro, dell’intervista si trasformava in un concentrato di emozioni: se da un lato innegabilmente c’era il mio timore di entrare nelle loro case e nella loro vita nel modo più delicato e rispettoso possibile, dall’altro si percepiva un alternarsi di sentimenti ritmati dalle parole che compongono il flusso della narrazione. Si entrava quindi in una dimensione protetta nella quale ci si può confidare apertamente, una situazione che raramente si viene a creare al di fuori delle interviste. È in quell’esatto momento che le priorità cambiano e tutto si ridimensiona: non si è più spinti dalla necessità di raccogliere dati ed informazioni, ma dalla voglia di ascoltare e di capire.
«Perché ciò che motiva gli antropologi, in ultima istanza, non è una pretesa di conoscenza, ma un’etica della cura. Non ci preoccupiamo per gli altri se li trattiamo come oggetti di indagine, assegnandoli a categorie e contesti o fornendo spiegazioni su di loro. Ci prendiamo cura di loro portandoli in nostra presenza, in modo che loro possano conversare con noi e che noi possiamo imparare da loro. Questo è il solo modo per costruire un mondo dove ci sia spazio per tutti. Ed è solo assieme che potremo costruirlo» (Ingold, 2020, p. 107).
Ingold, antropologo, in questo magnifico estratto parla di “etica della cura” un’espressione che calza a pennello nel caso della Leventinese, patologia per la quale non esiste una cura intesa in senso biomedico. Personalmente ho percepito la portata terapeutica delle interviste, una cura a livello antropologico dettata dalla voglia e dal bisogno di condividere la propria esperienza di sofferenza con qualcuno. Se da un lato l’intervistato si espone e si confida, dall’altro l’intervistatore deve aprirsi all’ascolto. Si crea così uno spazio di scambio reciproco, un momento di condivisione intima che sta al cuore non solo dell’antropologia, ma dell’esperienza umana.
Bibliografia
Ingold, T., (2020), Antropologia. Ripensare il mondo, Meltemi, Collana Biblioteca/Antropologia.
Kleinman, A., (1989), The illness narratives. Suffering, Healing and the Human Condition, Basic Books, New York.
Kleinman, A., (2019), The soul of care. The Moral Education of a Husband and a Doctor, Penguin Books.
Pizza, G. (2005), Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Roma, Carrocci Editore.
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