Viaggi sognanti

Terre di ghiaccio, terre di fuoco, terre di vento 

Viaggiare è incontrare l’Aria nel suo sussurare, a volte carezzevole, altre tumultuoso.

Incontrare la sua brezza, che parla dell’infinita battaglia tra luce e oscurità, tra il cielo e le nuvole, tra natura e cultura. L’Aria che accarezza l’anima, a cui poter affidare il battito del cuore, che si apre a mondi lontani in cui lasciarsi incantare, veleggiando. L’Aria che abita l’invisibile, terreno di gioco delle nuvole, annuncio della tempesta, che scuote il mondo e travolge nel ricordo tutti gli ombrelloni della spiaggia della nostra infanzia. L’Aria nell’amore, come tocco della poesia del mondo, che ti accoglie, ti spinge a sentire su di te l’invisibile dipinto. L’Aria nel risveglio della vita, nel sorgere della luce, quando la primavera della vita, che soggiorna in noi, si fa per noi dono nel gioco delle ombre, che danno casa alla luce, che bisbigliano canti d’amore, lievissimi e seducenti.  

Viaggiare? 
Per viaggiare basta esistere
come di stazione in stazione
nel treno del mio destino
affacciato sulle finestre e sulle piazze
sui gesti e sui volti
sempre uguali e sempre diversi
come in fondo sono i paesaggi. 
Fernando Pessoa (da Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, eteronimo di Pessoa).  

«Per viaggiare – veramente – basta esistere».

«Viaggiare è un’esperienza interiore», una voce dell’anima, «un’immersione nella libertà dell’immaginazione», così le parole del poeta. Viaggiare nel mondo del sogno e nel suo mundus imaginalis, svelato da Henri Corbin nel suo L’immaginazione creatrice (1956), è trovare la mirabilia, di un mondo ancora incantato, ove soggiornano gli dèi, che non hanno ancora abbandonato i cieli, insieme ai folletti, agli uccelli colorati, alle ninfe che stanno sul bordo degli stagni e dei fiumi e alle Oreadi sulle alture delle montagne da cui guardano l’infinito. Cerco di vedere guardando, di cogliere la brezza del cielo, l’incanto dei tanti mondi che ci circondano.  

«I viaggi – dice ancora Pessoa – sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma quello che noi siamo».

Mi espongo di fronte ai tanti Mondi della Vita, alla loro musica e alle loro colorate atmosfere. Forse quando il viaggio dell’anima riprende il suo cammino l’incanto si rinnova. Il mistero della Vita si risveglia, come quando la giovinezza con la sua freschezza d’anima, che abita in ognuno di noi, al di là del tempo che scorre sul suo “cavallo dorato”, si apre e inaugura pensieri e armonie sulla Vita, con la Vita, per la Vita. Una condizione che ci fa tutti giardinieri in quello che potremmo chiamare, giardino dell’esistenza. Un giardino che ci ospita come fratelli nel destino della Vita e delle Vite, del Mondo e dei Mondi. In quel giardino che è null’altro che la nostra quotidianità cerchiamo la luce, troviamo la luce, proteggiamo la luce, come gesto di cura verso noi stessi, gli Altri e il Mondo. Un giardino che ci fa, come scrive Chandra Livia Candiani nel suo Questo immenso non sapere (2021), «ortolani delle nostre vite» nell’incanto di ciò che nasce e si risveglia.  

Ortolania della vita, per una buona Cura in tutte le sue forme e in tutti i suoi cammini. Viaggiamo nelle geografie e nell’invisibile dei paesaggi come pellegrini per trovare una nostra verità, per incontrare il mistero di un luogo, di una parola, di un segno, per non perdere la strada.

L’anima cammina esule nella terra, orfana e scopritrice di parole vere, viandante in cerca di una casa, come straniera nel buio di un’identità smarrita.

Esposti a volte gioiosamente, altre drammaticamente alla ricerca di un fine dell’esistenza nell’attesa di una fine alla vita, di un limite, di un confine, di una soglia al futuro nello smarrimento del presente, che ci vede, come scriveva Gabriel Marcel nel suo Homo viator (1944), uomini viaggiatori, viaggiatori della profondità del cuore. Viaggiare, metafora della Vita, è incontro con il tempo, per farselo amico a volte, temerlo altre, quando suona la campana dell’ultimo giorno. Un tempo che sospende il tempo. Un tempo che cerca i frammenti perduti del tempo. Un tempo dilatato, troppo veloce per ascoltarne le storie, troppo lento da essere prigioniero del passato. Il viaggiare e il suo tempo perduto e ritrovato dialoga con il ricordo e insieme con la dimenticanza, con il ritorno di ogni moderno Odisseo e lo smarrimento tra i canti magici delle Sirene e le tempeste furiose, che scuotono la nave della vita.  

Nel vento che viene 
Soffiando dai marosi
Le bianche onde, ecco, 
sembrano nient’altro
che una distesa di fiori 
Ōe no Chisato, (大江千里; fl. IX-X secolo) 

Mentre il vento diviene un tappeto di fiori nella meraviglia di anime viaggianti. Magia antica, abitata dai paesaggi dei nostri sogni. Che questi sogni ci accompagnino, in questi giorni d’estate, attraverso lo sguardo del poeta Franco Arminio, che parla nel suo Caraluce (2025) di Novidio, un paese immaginifico in cui è ancora possibile sognare, aprirsi all’accadere improvviso dell’inatteso, allo stupore, alla mirabilia del vivere: «A Novidio piove spesso. Le anime escono a prendere la pioggia lasciando i corpi a casa. Le gocce di pioggia quando prendono un’anima fanno un piccolo salto, un salto di gioia».  

Scultura di Luigia Pult (2012): All’incontro con l’Aria

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