Warum Tod?

Una serie lungo la soglia della morte 

Questo articolo fa parte di una serie. Il primo contributo è consultabile qui. 

Questa domanda, che riecheggia il Warum Krieg del famoso carteggio di Einstein con Freud, esprime in verità la curiosità attonita e ingenua dei bambini quando percepiscono la presenza della morte attraverso qualche esperienza più individuale. La mia impressione personale e professionale è che il bambino non si chieda solo cos’è la morte, ma piuttosto perché si muore.  

In altre parole, noi tutti adulti sappiamo che la morte è un evento biologico umsonst, gratuito, ma tutti noi siamo passati attraverso il momento tipico della fanciullezza in cui abbiamo psicologizzato la morte. In particolare, abbiamo imparato a differenziare la morte, irreversibile, dall’andar via, reversibile. Infatti, per il bambino la morte di qualcuno che gli è familiare equivale a lungo ad un andar via. Questo convincimento gli è sufficiente nel caso egli desideri sbarazzarsi di un rivale, e lo protegge invece dalla percezione dolorosa del lutto nei confronti di qualcuno a cui sia legato da sentimenti prevalentemente libidici. A questo punto, però, la morte è pienamente riconosciuta come evento irreversibile, insieme con tutto il suo carico di possibilità soggettiva e di inevitabilità oggettiva: possiamo augurare e dare la morte ad un essere umano, non possiamo evitare che un altro essere umano muoia, e “forse” non possiamo neppure evitare la nostra morte. 

Così ci siamo chiesti come la morte sia entrata a far parte della nostra esperienza umana e perché. Ciò sembra corrispondere al carattere scandaloso della morte, al punto che oggi c’è qualcuno che parla del carattere pornografico della morte, intendendo con ciò la proibizione di alludervi, di parlarne apertamente, cosa ritenuta implicitamente riprovevole. Tutt’al più ci si può riflettere solo segretamente. 

Freud ha riflettuto sui nostri atteggiamenti nei confronti della morte, convincendosi che se ne possano riconoscere in particolare tre. Innanzitutto, noi disconosciamo la nostra stessa morte, viviamo come se fossimo immortali. La nostra morte è irrappresentabile, dal momento che quando noi ci figuriamo la nostra morte ne siamo immediatamente spettatori e come tali viventi.  

Il secondo atteggiamento è quello nei confronti dei nostri nemici: la loro morte esiste eccome, deve esserci, ci è assolutamente necessaria e vi facciamo idealmente ricorso ogni volta che veniamo in qualche modo contrastati. Ma va all’inferno, o qualcosa di simile, è il commento che usiamo esplicitamente o segretamente in queste circostanze. Se i nostri desideri omicidi si realizzassero, dice Freud, il mondo sarebbe un deserto. Tuer son mandarin, è l’espressione scherzosa usata da Freud per alludere alla possibilità di eliminare qualcuno di scomodo senza conseguenze per noi, in una realtà che non ci compromette, in un altrove significativo ma decolpevolizzato ed estraneo, in Cina per esempio. 

Il terzo atteggiamento è quello determinato dalla morte di una persona che ci è cara. In questa circostanza non possiamo più disconoscere che la morte ci riguarda personalmente, ci colpisce nei nostri affetti e distrugge le nostre esistenze. La nostra segreta presunzione di immortalità viene meno e ci percepiamo per quello che siamo: caduchi. Inoltre, confrontati con la perdita e costretti ad elaborare il lutto, ci scopriamo più o meno confusamente colpevoli, sulla base del secondo atteggiamento nei confronti della morte, quello della morte che abbiamo augurato ai nostri nemici. Infatti, per quanto abbiamo amato la persona cara scomparsa, abbiamo certamente avuto qualche occasione di contrasto con lei, occasione in cui abbiamo avuto segreti, inconsci o preconsci pensieri aggressivi, mortiferi nei confronti della persona amata. Ora ci sentiamo in colpa, perché nel nostro intimo consideriamo la morte sempre come la conseguenza di un qualche accidente, esito di una più o meno segreta malevolenza e/o colpa; in questo senso conservando una visione inconscia della morte del tutto simile a quella dei nostri antichi progenitori, come ci insegnano gli antropologi studiosi del pensiero primitivo. 

Freud, studioso di Frazer, in Totem e Taboo descrive infatti l’attitudine dell’uomo primitivo nei confronti della morte: la morte è sempre conseguenza di un’azione umana o soprannaturale misteriosa ma sicura. Questa osservazione è di grande importanza perché ci permette di valutare sia quanto ci consideriamo alla mercé di un fato misterioso e implacabile, giudice dei nostri più segreti pensieri, sia quanto riteniamo determinanti per le nostre sorti la qualità dei rapporti interpersonali consci, preconsci e inconsci. 

Il rapporto dell’uomo delle origini con la morte è tra i più straordinari. Di fronte al cadavere del proprio congiunto o anche del proprio nemico e sulla base anche, ma non solo, del senso di colpa, gli esseri umani cominciarono ad immaginare l’anima come permanenza invisibile del defunto, quindi una componente inafferrabile dell’essere umano, con ciò dando inizio alla scienza dell’anima, cioè alla psicologia. 

Dunque, alla domanda perché la morte? possiamo rispondere su di un piano biologico, ma possiamo anche tentare di descrivere e studiare la psicologizzazione della morte, il tentativo cioè di dare un senso ed un significato alla morte su di un piano spirituale. Le tre ipotesi freudiane sul nostro rapporto con la morte sono un tentativo di questo genere e rappresentano uno spunto iniziale per questa disamina. 

Senza ombra di dubbio la più importante evidenza clinica relativa alla morte è quella dell’impulso degli esseri umani al diniego della morte. Ernest Becker, giunto al termine della propria vita e ormai malato di un cancro terminale, scrisse un commovente saggio dal titolo The Denial of Death, richiamando la nostra attenzione sulla necessità di contrastare questa grossolana difesa così carica di conseguenze per la nostra convivenza di esseri umani.  

Anton Cechov è vissuto per gran parte della sua vita malato di tubercolosi, malattia che lo avrebbe portato alla morte poco più che quarantenne. In un racconto dal titolo Il violino di Rotschild egli narra la storia di un vecchio falegname russo di nome Jakov, costruttore di bare, gigantesco, rozzo e violento, che vive con l’anziana moglie sempre silenziosa, spaventata e sottomessa. Jakov è solo preoccupato del suo lavoro, che conosce bene, e del guadagno, ancorché modesto. La sua unica manifestazione gentile è la sua abilità nel suonare un violino di vero pregio, con il quale viene invitato a far parte di una modesta orchestrina che si esibisce ai matrimoni, in qualche festicciola di famiglia o in qualche sagra paesana. In questa orchestrina suona anche Rotschild, un piccolo e timido ebreo che teme il collerico Jakov, ma di cui ha grande stima come musicista. Jakov perde la moglie malgrado l’abbia portata all’ospedale e dopo poco si ammala anche lui, cominciando a pensare alla sua morte, che sente imminente, e alla sua vita spesa mediocremente nel lavoro senza gioie. Ricorda che tanti anni prima la piccola moglie Marfa aveva avuto una bellissima bambina bionda morta ancora in fasce. Mai una carezza aveva riservato alla sua fragile e sofferente moglie. Ormai è troppo tardi. Rotschild in quel frangente viene a chiamare Jakov per un’importante serata musicale e si avvicina al vecchio con grande timore, teme addirittura che Jakov possa picchiarlo come forse aveva già fatto. Jakov allora sente finalmente una grande pena per il piccolo ebreo, come aveva sentito finalmente per la fragile moglie Marfa, finendo con il provare una grande pena anche per se stesso. Ormai vicino a morire sussurra ai vicini che lo assistono: «il violino datelo a Rotschild». In seguito, quando l’orchestrina suona nelle festicciole, tutti si chiedono dove mai Rotschild abbia trovato un così bel violino e dove abbia appreso a suonarlo in modo così commovente. Rotschild non dice nulla, solo si asciuga il sudore e mormora tra le lacrime: Ach! 

Il racconto di Cechov è un buonissimo esempio clinico di ciò che intendeva Freud quando diceva: «si vis vitam, para mortem». La consapevolezza della morte riordina la vita di Jakov che scopre, non del tutto tardivamente, la necessità della amorevolezza e della solidarietà, e il valore consolatorio della bellezza artistica e della generosa amicizia, un po’ come i pastori descritti da Virgilio. Inoltre, Jakov lascia un’eredità, la sua rustica arte ed un prezioso violino, strumento di gioia. Dunque, la caducità diventa uno strumento per rendere la vita più degna di essere vissuta. Tornerò sul tema dell’eredità. 

Bibliografia

Becker, The Denial of Death, Free Press, New York, 1973. 

Cechov, Racconti e Teatro, Sansoni, Firenze, 1966.

Freud,  «Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte (1915)», in Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino, 1976. 

Freud, «Perché la Guerra? (1932)», in Opere, vol. 11, Boringhieri, Torino, 1979. 

Freud, «Totem e Taboo (1912-1913)», in Opere, vol. 7, Boringhieri, Torino, 1975. 

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