L’altro

Un racconto sullo “specchio” della cura

L’architetto M. osservava il territorio su cui doveva sorgere l’ospedale psichiatrico St. Jakobs; il comune aveva deciso di dargli il nome del monastero di frati che insegnava le ore alle poche case affacciate sul lago. La collina sembrava una poltrona verde, il pendio dolcemente declinante invitava a sdraiarsi a contemplare l’azzurro. Le campane erano l’unico suono nella piccola valle; i finanziatori del progetto tenevano al silenzio, la quiete esterna avrebbe influito positivamente sull’animo disturbato dei futuri pazienti. M. percorse a passi da novantasette centimetri il perimetro dell’edificio che iniziava a delinearsi nella sua mente.  

 I piani circolari sarebbero scesi a spirale dal settimo al primo, ogni cerchio avrebbe sostenuto perfettamente la sezione del successivo con un rapporto di uno e sessantuno. Le camere sarebbero state orientate in modo radiocentrico e ad ogni livello si sarebbero affacciate verso l’esterno con un’unica finestra, la struttura non doveva disperdere calore e la breve tenda azzurra che i prigionieri chiamavano cielo non poteva superare i due metri quadrati. I livelli sarebbero stati costruiti intorno a una torre centrale, da cui ogni stanza sarebbe stata controllata: un Panopticon di Jeremy Bentham. Finalmente i progetti utopici degli architetti e urbanisti Claude-Nicolas Ledoux e Ètienne-Louis Boullée che tanto avevano affascinato M. durante gli studi al politecnico federale di Zurigo si sarebbero fusi in perfetta armonia. 

 

Coup d’oeil du Théâtre de Besançon, Claude-Nicolas Ledoux, 1804

 

Il cicalino del Dott. M. suonò per la terza volta e il medico si svegliò di soprassalto, di nuovo la stanza centosessantuno. Il Dott. M. amava il turno di notte, godeva il tempo sospeso e dilatato che le ore di buio regalavano a chi era tenuto allerta dai fantasmi. Come una talpa con la sola cecità a guidarla, andò al lavandino e si sciacquò la faccia. Voleva essere lucido, il paziente di quella stanza non conosceva banalità, non ne accettava in risposta. L’unico modo di non rispondere alle sue domande era porre domande. Quei dialoghi tra medico e paziente animavano i turni del Dott. M. da quando aveva iniziato a lavorare al St. Jakobs.  

Il medico si avviò lungo il corridoio che collegava la torre centrale all’ala est dell’edificio. Il paziente centosessantuno aveva insistito per avere quella stanza e non ne avrebbe accettata un’altra. Quando lo avevano ricoverato aveva vaneggiato di un luogo dove chiedere è avere, dove cercare è trovare, dove bussare è una porta spalancata. Si era deciso di accontentarlo, del resto non era un paziente qualunque, era l’architetto dell’intera struttura di cura, pare che avesse iniziato a dare i primi segni di squilibrio durante la costruzione dell’ospedale; il progetto era molto complesso e il lavoro lo aveva logorato. Un semplice stress da sovraccarico, nessuno si sarebbe aspettato quello che poi era successo. Il Dott. M. entrò nella stanza, l’infermiera del turno di notte lo stava aspettando, Ruth, aveva i denti sporgenti, i capelli lisci alla Joan Baez e il sorriso inossidabile di chi vuole il bene ad ogni costo, non perdeva mai la pazienza. L’architetto era sudato, il lenzuolo una sindone; il sogno da cui era emerso gli si era appiccicato addosso viscido. Il respiro inciampava nei denti, ma sorrise al Dott. M. e lo fissò negli occhi grigi con i suoi occhi grigi. 

«L’umanità continua ad esistere nonostante il bianco?» chiese, il suo sorriso mescolava, con discrezione, ironia e rispetto. M. si guardò il camice. 

«Il bianco è un colore di elevata luminosità ma senza tinta, più precisamente contiene tutti i colori dello spettro elettromagnetico ed è chiamato colore acromatico, è l’opposto del nero che rappresenta l’assenza di colore. Il bianco è un motivo di purezza e integrità, si sottomette a tutti, lascia spazio a ogni sfumatura umana rendendola protagonista». 

«Ho avuto le stesse intuizioni quando ho deciso di dare alla facciata di questo edificio il colore bianco, sono anche certo però che l’opposto del bianco non sia il nero ma piuttosto l’oro, che da sempre corrompe l’animo umano. Ma qual è piuttosto il colore della sofferenza dottore? Cosa vede, cosa sente lei guardando dalla torre centrale verso tutte le stanze?». 

«Non c’è colore nel dolore dei miei pazienti, è l’olfatto l’espressione sensoriale che codifica la sofferenza. Io sento il cattivo odore circondarmi da ogni raggio della torre che lei ha progettato e non c’è giorno che io non entri in quest’ospedale senza maledirne l’architetto. Ostaggio della vostra disperazione sono, prigioniero del bene che ho giurato a Ippocrate di portarvi. Rodin vide le porte dell’inferno e non riuscì a finire di scolpirle, cosa vide lei per partorire una struttura in cui la sofferenza assedia la cura?». 

«Lei ha giurato a Ippocrate, io a Vitruvio: firmitas, utilitas, venustas guidano ogni architetto. Per quanto riguarda la firmitas non c’è struttura architettonica più stabile e pura di quella sferica e di quella circolare. La bellezza o venustas sta nell’armonia di forma e funzione. Ma è l’utilitas la magia più forte di questo progetto, il Panopticum di Bentham. È la tipologia concettuale che lega forma e funzione al meglio: lei al centro è l’Opticum, noi intorno siamo il Pan, il tutto a cui lei è collegato. In ogni raggio della torre corre il potere invisibile che lega medico e paziente».

Pianta, Sezione e vista Panopticon, The works of Jeremy Bentham vol. IV 172-3, 1791

 

«È un concetto che ci insegnano al primo anno, la corrispondenza tra struttura e funzione, diventa quasi un gioco nelle ore di istologia riconoscere un tessuto analizzandone microscopici frammenti, il primo linguaggio che il medico impara è proprio quello che gli permette di decifrare il dialogo che lega la funzione d’organo alla struttura dei tessuti che lo compongono, il macroscopico al microscopico. Però vede, architetto, noi ci limitiamo ad osservare, a riconoscere, al limite ad aggiustare, quando si danneggiano, quando possibile, le forme e le strutture che la natura ci ha regalato; con umiltà sottostiamo ai fragili ma eterni rapporti che la fisiologia ci impone. Ci rassegniamo alle piccole asimmetrie organiche su cui si basa l’evoluzione e sappiamo bene che la perfezione non è un obbiettivo in natura. Perfettamente stabile è solo la morte, la vita per crescere, per evolversi ha bisogno di imperfezione. Nell’ansia di voi architetti di strutturare lo spazio nel fisso e nel duro dei metri e delle quantità, io non vedo altro che la paura della morte, voi giocate a fare Dio solo per allontanare il crollo naturale delle cose. La stabilità che cercate è più mortifera del peggiore dei virus». 

«Dottore non giochi a fare l’umile con me. Gli uomini sono tra loro meno uguali di quello che dicono, e più uguali di quello che pensano. Vede, se le decisioni di un architetto si limitano a influenzare lo spazio in cui si muovono le persone, non è forse vero che le scelte di un medico ne decidono il tempo? Noi creiamo spazi, ma chi permette allo spazio di essere vissuto? Chi regola la vita che attraversa quello spazio? Non fate che distribuire tempo in punta di siringa, quante ore dormiremo, quanto staremo svegli, quanti minuti durerà un dolore, quanti un’anestesia, quanti battiti, quanti respiri per ogni minuto. Perciò io le chiedo, chi è più insolente? Chi osa progettare la struttura di un polmone o chi pretende di regolare la forza che lo gonfia e lo vuota? Chi progetta le cavità di un cuore, i tubi di un’aorta o di una cava o chi pretende di regolarne il flusso? E chi ha più paura della morte? Chi cerca di organizzare i luoghi dove si muoverà la vita o chi pretende di stabilirne la durata?». 

Il dottor M. distolse lo sguardo, alla finestra lentamente il grigio dell’alba stava lasciando spazio ai colori del giorno e ancora una volta il paziente della centosessantuno lo aveva fatto sentire mediocre e meschino. L’uomo di scienza come sempre capitolava ancora prima dell’alba davanti all’uomo di cultura; la spietata lucidità del paziente centosessantuno lo aveva di nuovo messo al tappeto, gli tornarono in mente le parole con cui aveva chiuso il loro dialogo la notte precedente «scienza è ciò che un solo uomo intelligente inventa, ma che qualsiasi altro imbecille può praticare».  

Anche allora aveva smontato il turno di notte con un sapore amaro in bocca, era uscito dall’ospedale e come ogni giorno si era voltato a guardare la struttura imponente del St. Jakobs, a lui ricordava solo un inferno dantesco condannato ad avvolgersi su se stesso in gironi di sofferenza. Tornando a casa si era consolato ripensando alle prediche del pastore protestante che da bambino ascoltava ogni domenica, a M. erano rimaste impresse le parole di un antico Re del IV secolo a.C. Salomone sosteneva che «non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche … dove c’è molta sapienza c’è molto affanno e chi aumenta la conoscenza, aumenta il dolore». Ecco perché il paziente della centosessantuno stava dalla parte dell’ago e lui dalla parte dello stantuffo; Nietzsche non era stato il primo filosofo a morire in manicomio e di certo l’architetto non sarebbe stato l’ultimo. Il Dott. M. si scosse dai suoi pensieri, distolse lo sguardo dalla finestra e guardò l’architetto, si stava godendo la sua ennesima vittoria intellettuale, il sudore era sparito, le narici dilatate e gli occhi ben aperti erano pronti ad assaporare la sua resa. 

Il medico decise che quel giorno non avrebbe timbrato il cartellino a testa bassa, un rimbalzello d’orgoglio rianimò i suoi pensieri. Si tolse il camice, il turno era terminato, e si avvicinò al letto del paziente. 

 

Illustration du Panoptique, Surveiller et Punir, Michel Foucault 1975

 

«Si sbaglia, architetto, non ho alcun potere sul tempo come lei non lo ha sullo spazio, tutte le persone che curo, così come tutti gli edifici che lei progetta, torneranno alla polvere da dove sono venuti. Siamo esseri finiti, falliremo entrambi davanti all’infinito. L’uomo non può fare nulla di importante». 

«È di nuovo lei in errore, amico mio, nulla va perduto, gli strati di polvere che forma la morte sono terreno e storia della vita che rinasce. Empedocle nel V secolo a.C. già sosteneva che non vi è nascita di nessuna delle cose mortali, né fine alcuna di morte funesta, ma c’è solo mescolanza e separazione di cose mescolate. Nel suo campo non si dice forse che l’ontogenesi ricalca la filogenesi? Henri Bergson nel saggio sui dati immediati sulla coscienza ritiene che il tempo non sia una retta di tanti punti contigui, ma un istante che cresce su se stesso sovrapponendosi agli altri. In architettura Aldo Rossi parla di elementi primari come di strutture abbastanza durature da influenzare tutto lo sviluppo di una civiltà, consideri la pianta di una città, il più delle volte ricalca nello spazio esattamente l’immagine che Bergson dà al tempo. Parigi, per esempio, si accresce intorno a cinque isole, luogo di ritrovo della vita urbana, monumenti di culto; si tratta degli elementi primari di Rossi e sono quello che i parigini chiamano l’âme de la ville. Luoghi dove si respira una spiritualità che va oltre al tempo, il nucleo più interno, il centro di ogni cosa. Quindi, per usare le sue stesse parole, sarà pur vero che l’uomo non può far nulla di importante, ma può sperare che risulti importante quello che fa, che sulla polvere che lascia si posi prima o poi un’impronta che ne attirerà altre. La nostra vita è come Bach suonato su un bicchiere per un istante, ce ne andremo e se abbiamo fortuna lasceremo giusto un’eco nei pensieri di qualcuno. Mi guardi dottore, io mio avvio al mio scomparire e posso solo augurarmi che la mia esperienza sia il nucleo dove sovrapporre la sua. Io e lei nasciamo dalla stessa scintilla, non saremo mai due persone diverse; prima lo capisce, prima potrò tornare alla polvere che mi aspetta». 

«Ruth! Cinque milligrammi di Midazolam in venti cc. di fisiologica, il paziente ha bisogno di riposo». 

Il dottore si girò, ma Ruth non c’era già più. Finito il turno, aveva smesso il suo sorriso lasciando l’edificio, il bene dei pazienti sarebbe tornato al primo posto solo otto ore dopo. M. guardò la siringa, la prese, afferrò il braccio nudo del paziente, cercò la vena cefalica, l’occhio gli cadde sulla cicatrice a forma di X, identica alla sua. Quattro occhi grigi si incrociarono di nuovo. 

«Sì—disse l’architetto—penso che ci ricordiamo entrambi di quel giorno d’estate in bicicletta, non è così dottore?» 

M. non seppe mai nel braccio di chi finì il Midazolam, che aveva in siringa. Quando si svegliò, Esther, l’infermiera del turno di mattina, lo aveva riportato nella torre centrale. Corse tra le persone che camminavano lungo i corridoi fino all’infermeria del reparto est, scosso e sudato, il fiato che inciampava nei denti, chiese come stesse il paziente della centosessantuno. La caposala lo guardò con un sorriso indulgente e gli chiese se si sentisse meglio, aveva avuto un malore la sera prima ed era svenuto tra le braccia di Ruth. Aggiunse che in ogni caso le stanze arrivavano solo fino alla centosessanta sul lato est. M. si voltò. Camminando lentamente, uscì dall’ospedale e come ogni giorno si girò a guardare il misterioso edificio che aveva progettato.

3 pensieri su “L’altro

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