L’oltre e l’altrove

Parole per uscire dal mondo, parole per uscire nel mondo 

“Uscire dal mondo, uscire nel mondo”: questo titolo evoca la soglia del nostro radicamento nella vita e del suo movimento. Le parole oltre e altrove raccontano il significato esistenziale di questo uscire dal/nel mondo: sono parole simbolo del viaggio con sé stessi e verso sé stessi. Oltre e altrove aprono ad una domanda fondamentale sull’esistenza, molto attuale e forse urgente. Siamo nell’epoca dell’ibridazione sempre più spinta con gli artefatti tecnologici: alla progressiva umanizzazione della macchina, di cui ChatGPT è il recentissimo fiore all’occhiello, corrisponde una spesso fascinosa “macchinazione” dell’umano: corpi meticci, cyborg, e all’orizzonte le inquietanti frontiere prossime venture del transumanesimo. 

La questione etica fondamentale non è tanto quella di evitare di lasciarci colonizzare dalla tecnologia. Non si tratta mai di questo perché i significati, anche quelli che parlano delle ricadute della tecnologia sul nostro vissuto, nascono proprio dentro il nostro vissuto: ogni significato appartiene all’umano. Come scrive Miguel Benasayag in un suo recente libro, il computer non gioca e non vince, l’ascensore non sale né scende: giocare, vincere, salire o scendere sono significati nostri. La macchina funziona, noi esistiamo (Benasayag, 2020). 

Ecco, dunque, la questione etica: che cosa è l’umano, qual è la singolarità dell’umano? Come riconoscere il nostro esistere di corpi viventi? Di corpi territorio dell’anima? Come riconoscere la singolarità dell’umano per abitarlo e per farlo fiorire? L’umanesimo che la Fondazione Sasso Corbaro coltiva con amorevole cura è un’apertura ad orizzonti dell’esistere inesplorati, ad un viaggio con sé stessi nei luoghi intimi dell’umano, nel nostro sentimento di interiorità. È compito difficile oggi intraprendere questo viaggio con sé stessi; difficile sostare nel proprio vissuto, stare nel tempo e nelle sue durate; difficile abitare il tempo dell’anima quando rivolge la vita verso sé stessa.  

Oggi viviamo nel cosiddetto tempo reale, un ossimoro, perché in realtà questa ingannevole temporalità inghiotte il tempo nel suo divenire. Il tempo reale è un presente assoluto che ripete sé stesso e in cui siamo tutti convocati ad esibirci sulla scena di un mondo ridotto a spettacolo. L’esibizione del proprio esserci soffoca l’esposizione di sé al proprio mondo interiore. Ci allontana dal sentimento di interiorità. Difficile esporsi sulla soglia del nostro radicamento nella vita: difficile sperimentare l’uscire dal mondo come apertura contemplativa per sostare dentro la propria casa. Questo tempo immobile che ci mantiene alla superficie dell’esistere e imprigiona l’anima, è il tempo della sopravvivenza. Con grande lungimiranza, Alexis de Tocqueville aveva previsto nelle derive della democrazia, il desiderio di continuare a «godere di piccoli piaceri con cui riempire il proprio animo». 

Il tempo umano dell’esistere è invece il tempo della trascendenza in cui sperimentiamo che noi non siamo mai soltanto quello che siamo ora. Perché c’è sempre un altrove che ci abita ed un oltre che ci attende o che ci chiama. Per quanto difficile da varcare, la soglia di verità del nostro radicamento nella vita ci invita ad uscire dal tempo della sopravvivenza che affida il suo animo alle mute risposte del presente. Questa soglia di verità ci invita ad uscire da una realtà ingombrante che ci acceca con la sua visibilità squadernata e ci rende tutti uomini delle risposte, senza più domande di senso. 

A volte penso che siamo anime stanche, stanche di giostrare in mille esibizioni nelle vetrine del mondo, sempre efficienti e performanti, in una frantumazione e dispersione del nostro stare al mondo. Anime stanche sì, ma che comunque percepiscono i battiti della vita, tra sorrisi tristezze sofferenze, presenze, assenze, nostalgie, tra speranze e timori. In tanti frammenti di umana quotidianità ci sentiamo a casa, nella nostra casa più o meno ospitale, più o meno accogliente per le nostre inquiete e incerte verità, per la nostra fragilità e vulnerabilità. Ecco l’altrove che attraversa il nostro cammino e si annuncia con il rumore delle foglie che calpestiamo nel bosco, o nelle stelle tremolanti che inondano delicatamente i nostri occhi, o in un volto inatteso che ci interpella, solo per sapere se abbiamo l’anima uguale alla sua, o ancora, nel silenzio di una preghiera. È qui che l’umano si manifesta nella sua fragile potenza: nella trascendenza che sperimentiamo in quel luogo prezioso che è la soglia del nostro radicamento nella vita e che ci invita ad aprirci al nostro mondo interiore, ad uscire dal mondo. 

Dobbiamo ripartire dal cuore, da quel sapere del cuore di cui parlava il filosofo Blaise Pascal, che non ha nulla a che vedere con il sentimentalismo ma è una forma di conoscenza intuitiva in cui si esprime con forza la passione per la verità. Questa conoscenza del cuore ci fa uscire da un mondo prigioniero della razionalità che calcola e misura, e per la quale alla fine siamo tutti degli algoritmi. È il nostro abitare poeticamente il mondo. Entrare in contatto con la realtà con uno sguardo accogliente, lasciando che la realtà si offra a noi, che ci sorprenda nel suo darsi spontaneo. Ospitare il mondo, lasciarsi toccare da una realtà fatta di presenze e non di oggetti, conosciuti o conoscibili. Lasciarsi toccare, invece di tenere a distanza il mondo per conoscerlo e per possederlo. Questo abitare poeticamente il mondo è un’avventura creativa dell’anima. Christian Bobin, scrittore poeticamente ispirato, diceva che la poesia entra nel mondo come in una casa amica, rivela le cose, le porta a rivelarsi, non le forza. Ci tiene lontani dal desiderio di possesso di uso e di dominio del mondo. Lo sguardo poetico è contemplazione che provoca commozione verso ciò che riusciamo a vedere, senza renderlo oggetto delle nostre spiegazioni. 

«Abbiamo reso il mondo estraneo a noi stessi, e forse ciò che chiamiamo poesia è solo riabitare questo mondo». Abitare poeticamente la vita è rinascita a sé stessi. L’esperienza contemplativa che la alimenta non è altro che un modo di prendersi cura della vita. Contemplare è guardare e «commuoversi per l’assenza di differenza tra ciò che vediamo e ciò che siamo. (…) I contemplativi possono essere i poeti conosciuti come tali, ma anche un imbianchino che fischietta come un merlo in una stanza vuota. O una madre che rimbocca il lenzuolo del suo bambino, ed è come se si prendesse cura di tutto il cielo stellato» (Bobin, 2019). Il significato originario di contemplare è osservare attentamente il volo degli uccelli in un orizzonte di cielo (templum) per trarne presagi. Per noi contemplare è accogliere la realtà che ci viene incontro mettendoci all’ascolto. È entrare in una relazione di reciprocità con il mondo. È imparare a prendersi cura della vita in tutte le atmosfere, nelle sue luci e nelle sue ombre. 

«Il mondo non è che un campo di battaglia, ci sono cavalieri neri dappertutto; in fondo alle nostre anime risuona il rumore delle spade. Ma questo non ha alcuna importanza. Sono passato vicino ad uno stagno coperto di lentiggini d’acqua: questo sì che è importante. Noi massacriamo tutta la dolcezza della vita e lei ritorna sempre. E aggiunge: c’è una vita che non si arresta mai, una vita che non riusciamo a cogliere perché solo raramente sappiamo essere alla sua altezza» (Bobin, 2012). Abitare poeticamente il mondo, in questo altrove dell’esistere, significa essere all’altezza della vita anche, forse soprattutto, quando siamo attraversati dalle sue sofferenze.  

Un altrove in ostaggio della tecnoscienza?
Penso alla fascinazione del turismo spaziale, ultima frontiera delle esibizioni del mondo, che tenta di sdoganare inedite forme di trascendenza nella sua forma più intensa, l’abitare il cielo. Di fronte alle attuali riduzioni consumistiche dell’umana trascendenza, mi vien da pensare al grandioso racconto platonico del viaggio delle anime giunte al sommo della volta del cielo che «si spandono fuori» e si librano «sopra il dorso del cielo». Un potente vissuto di umana trascendenza, di umana contemplazione: un’esperienza poetica, un viaggio con sé stessi «sopra il celeste sito». 

Uscire dal mondo per abitarlo con l’anima
Quando si intreccia con l’emozione poetica, il pensiero ci rende abitanti del cielo, di questa grande metafora della trascendenza. Come accade, ad esempio, nella notte stellata di Van Gogh, dove il cielo diventa proiezione del nostro mondo interiore. Noi abitiamo dentro queste risonanze e dentro queste emozioni; siamo esperienza di trascendenza, seppure sempre in contatto con il peso della gravità che ci accompagna sui sentieri della vita. L’esperienza di un cielo della vita nasce infatti proprio nel corpo e grazie al corpo che siamo. Perché il corpo è il territorio dell’anima e il cielo dell’altrove è dentro di noi. 

Credo che questa possibilità di abitare poeticamente il mondo sia un dono prezioso, in grado di alimentare la conoscenza con una luce diversa e di rendere più autentico il nostro stare al mondo. È la porta di accesso ad una più profonda comprensione di noi stessi e della realtà cui apparteniamo. Una bussola per il nostro camminare nella vita anche, forse soprattutto, nell’attraversare le sue sofferenze. La filosofa spagnola Maria Zambrano parla di sapienza dell’anima: una forma di conoscenza originaria, inaugurale, antecedente al sapere razionale. Il sentimento poetico è quell’infinita disponibilità al mondo che offre al pensiero la capacità di sentire un’intimità originaria con le cose; un’intimità che riempie il logos di grazia e di verità (Zambrano, 2018). 

Abitare la vita con uno sguardo nuovo che sappia vedere, accogliere e ospitare anche il non saputo, il non detto, e ciò che forse non sarà mai del tutto dicibile. Uno sguardo che ci mette in contatto con la saggezza dell’anima e apre alle atmosfere del sacro e del mistico. In questo viaggio è in gioco il senso della nostra umanità, l’espressione dell’essenza e della singolarità di quell’umano oggi divenuto fragile, tra algoritmi e cyborg. Questo “uscire dal mondo” non impedisce lo spaesamento, o il dolore dell’esilio di cui parla anche la Zambrano, o la sofferenza che a volte annuncia una catastrofe esistenziale. Credo però che la sapienza dell’anima ci renda più ospitali verso le nostre fragilità, anche profonde, più accoglienti verso le ferite del vivere. Questo altrove dell’anima può essere davvero un luogo prezioso per prendersi cura della vita: un cammino, sempre un po’ misterioso e segreto, che accompagna il nostro uscire nel mondo. 

Bibliografia

M. Benasayag, La singolarità del vivente, Jaca Book, Milano, 2020.

C. Bobin, Abitare poeticamente il mondo, Anima Mundi, 2019.

C. Bobin, L’homme-joie, Gallimard, 2012.

M. Zambrano, Filosofia e Poesia, Pendragon, 2018.

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