Vi racconto la storia di Celine

Un monito per noi curanti 

A gennaio 2024 abbiamo chiesto ai curanti dell’EOC se avessero delle riflessioni o delle testimonianze sul curare da condividere. Questa è la prima testimonianza che abbiamo raccolto.  

Vi ricordiamo che siamo sempre a disposizione per accogliere i vostri contributi o discutere con voi di possibili idee. Per contattarci potete scrivere a rmh@sasso-corbaro.ch. 

La storia di Celine ha avuto inizio ormai più di 10 anni fa, quando frequentava la prima media. Una storia che, ripercorrendola oggi, ha ancora dell’incredibile e che purtroppo ha lasciato, in lei e non solo, delle ferite indelebili.  

Celine è sempre stata di costituzione fragile. All’età di 8 anni le venne diagnosticata un’asma bronchiale e da allora non ci fu più tregua. All’inizio della prima media iniziò a perdere peso e ad accusare dolori addominali, prevalentemente in fossa iliaca destra. Nell’arco di sei mesi venne più volte visitata da diversi medici, accompagnata in pronto soccorso e, esclusa un’appendicite, rinviata a casa ogni volta.  

A febbraio, ancora per la stessa sintomatologia con in aggiunta incapacità ad alimentarsi, nausea costante, perdita di peso e difficoltà a stare in piedi, venne ricoverata per un paio di giorni e qui iniziò il vero “calvario”. Dopo le indagini effettuate, che ancora una volta escludevano un’appendicite, il medico che seguiva il suo caso, avendo saputo durante un colloquio con la nonna che Celine seguiva un’alimentazione che prevedeva l’assunzione di pochi alimenti, pensò di avere capito l’origine dei suoi disturbi: sicuramente si trattava di un problema di origine psicologica. Rivolgendosi verso la sua paziente disse: «Ma non ti vergogni di dare tutti questi pensieri ai tuoi genitori? Non ti voglio più vedere nel letto». Io all’epoca non ero a conoscenza di questa conversazione.  

Prima del ricovero, avevamo previsto di andare qualche giorno a Lisbona con amici per le vacanze di Carnevale ma, vedendo la situazione di nostra figlia, avevamo detto in ospedale che avremmo rinunciato al viaggio. Tuttavia, al momento della dimissione ci raccomandarono di partire lo stesso: «avrebbe fatto bene a tutti». Alla mia domanda su cosa pensassero stesse succedendo a Celine ci fecero intendere che si trattava di un disturbo alimentare di origine psicologica e che sarebbe stata presa in osservazione dalla sua pediatra. Il viaggio a Lisbona fu un disastro. Celine riferiva continui dolori all’addome, faticava a camminare e noi cercavamo di obbligarla a mangiare nonostante lei dicesse di non riuscire per la nausea e il senso di sazietà, che emergeva immediatamente dopo solo alcuni bocconi di cibo. 

Un venerdì mattina dopo il nostro rientro, vedendo Celine nuda (sembrava l’immagine di una bambina affetta da grave malnutrizione) che non riusciva a camminare, la portai nuovamente in ospedale e dissi ai medici che non saremmo tornate a casa senza aver fatto tutti gli accertamenti diagnostici del caso e che sicuramente non si trattava di “qualcosa di psicologico”. C’era sicuramente una causa organica. 

Il martedì successivo, Celine venne sottoposta a gastroscopia e colonscopia d’urgenza presso l’ospedale universitario di Basilea.

Ricorderò sempre i lunghi minuti trascorsi nell’attesa di avere notizie, momenti terribili dove il pensiero vagava tra diverse ipotesi,

una delle quali… – ne parlerò più avanti. Noi genitori non vedevamo l’ora di rivedere Celine comparire nella sua stanza in quel reparto così estraneo a noi provenienti dal Ticino. Vedevamo un via vai di bambini trasportati per esami e piccoli interventi, e ogni volta poi vedevamo arrivare i medici che portavano notizie ai genitori. Quindi, quando la signora gentile che ci era stata assegnata per fare anche da traduttrice ci convocò per accompagnarci nello studio del primario, il nostro cuore iniziò a battere veloce. Frazioni di secondi in cui il mondo ci sembrava crollare addosso perché intuivamo che la diagnosi non sarebbe stata nulla di piacevole. Con mio marito arrivammo nello studio del primario di gastroenterologia e rimanemmo colpiti dalla presenza di tanti medici ad attenderci (pediatra, endocrinologo, radiologo, con i medici dei loro team). Dopo un breve saluto, il primario, che fortunatamente parlava bene l’italiano, iniziò a dirci che durante l’esame aveva notato una chiara infiammazione a livello intestinale. Io lo interruppi e gli chiesi: “Ci sta dicendo che Celine ha il morbo di Crohn?”. Lui mi guardò sorpreso e allora gli spiegai che ero un’infermiera e che, analizzando gli elementi della storia clinica di mia figlia, mi era sembrato probabile. E lui, allora, ci fece una domanda che brucia ancora oggi: «Come mai arrivate solo adesso?». La risposta fu abbastanza ovvia: eravamo già andati diverse volte a far valutare nostra figlia nel corso di tutto quel tempo, ma purtroppo le cose erano andate nel peggior dei modi…

Il pregiudizio e l’etichettatura avevano influenzato il ragionamento clinico.

Il primario disse che era necessaria la conferma dei campioni inviati in laboratorio, che ci sarebbero voluti almeno 10 giorni, ma che era sicuro che si trattava del morbo di Crohn. Inoltre, ci spiegò di aver chiesto la collaborazione del collega endocrinologo per valutare eventuali danni al corretto sviluppo fisico di Celine, vista la grave malnutrizione. Durante quella conversazione emerse molto forte la loro vergogna per non aver preso seriamente il caso di nostra figlia fino a quel momento, e ci assicurarono che lo avrebbero manifestato anche ai loro colleghi.  

Un altro momento cruciale che non dimenticherò mai fu quando Celine si svegliò dall’anestesia e mi rivolse la domanda: «Mamma, ho il morbo di Crohn?» Rimasi pietrificata, poi le chiesi «perché mi parli del morbo di Crohn?» e lei, candidamente, rispose: «Sai mamma, sono andata su Internet, ho collegato tutti i sintomi e così è uscita la diagnosi». Non ebbi il cuore di non dirle la verità e lì mi accorsi che non vedevo in lei dispiacere nell’apprendere la notizia; aveva uno sguardo particolare, che non le avevo mai visto prima di allora. Poi compresi… il suo disagio aveva finalmente un nome. Lei che aveva vissuto sulla sua pelle il pregiudizio, adesso poteva dire finalmente: “Vedete che non mentivo”. 

Iniziò un percorso ad ostacoli. Dopo il rientro a casa e un primo tentativo di cura risultato inefficace, Celine continuava ad avere forti nausee e non riusciva ad alimentarsi sufficientemente. Venne, quindi, ricoverata a Basilea, dove venne posizionata per la prima volta una sonda naso-gastrica tramite la quale fu alimentata per i successivi due anni ad intervalli di tre mesi. Rientrammo in Ticino dopo una settimana e iniziò una nuova “vita”. Celine tornò a scuola ma visse l’emarginazione degli altri bambini che la vedevano tornare con quella cosa strana nel naso. Qualcuno le chiese se stava per morire, qualcun altro non la guardava, oppure qualcuno si soffermava a guardarla troppo… Lei non riusciva a fare ciò che gli altri facevano; anche andare in pausa fra le lezioni le costava fatica. Le mancavano le energie, aveva spesso mal di pancia. Il suono della pompa che la alimentava scandiva spesso le notti che trascorrevamo insieme. Tutto divenne complicato e sempre più Celine si isolò dal mondo.

Iniziò a portare con sé una noce alla quale aveva disegnato due occhi, un naso ed una bocca; quella noce divenne la confidente di nostra figlia.

Un giorno mi capitò fra le mani il suo diario e rimasi colpita da una frase che vi trovai scritta: «Quello che mi fa più male in tutto ciò che provo è che neanche gli affetti più cari credono in me». Una frase che mi accompagnerà per sempre nella vita, una frase che racchiude tutta la sofferenza di una bambina di undici anni che neanche noi come genitori abbiamo compreso. Infatti, abbiamo dato fiducia a ciò che ci era stato detto, sbagliando ad esempio nel farla mangiare con la forza in diverse occasioni. 

Non si ricordano le innumerevoli visite che si susseguirono, gli esami più o meno invasivi.

Diventò un corpo, o meglio continuò ad essere un corpo, da curare.

Anche l’asma fece la sua ricomparsa prepotentemente; c’era sempre un imprevisto a cui far fronte. Nonostante ciò, e nonostante tutte le assenze scolastiche, nostra figlia superò brillantemente la prima media, la seconda media ed anche la terza. Fu allora che si presentò un nuovo grande imprevisto. 

Anche quel famoso giorno non lo dimenticheremo mai. Eravamo andate a fare un’ecografia di controllo nell’ambito del morbo di Crohn. Nel corso della visita la dottoressa appoggiò la sonda sull’addome e iniziò a cambiare espressione. Si trattenne di più sul lato sinistro e, dopo un momento che sembrò non trascorrere nei tempi “fisiologici”, interruppe l’esame, sollevò lo sguardo e ci chiese: «Ma voi siete qua per il Crohn o per il rene?». Mia figlia ed io ci guardammo basite. Nel frattempo, la dottoressa uscì e andò a chiamare il suo capo. Rientrarono insieme e ripresero a visionare le immagini prodotte dall’ecografo mentre noi rimanevamo nel nostro silenzio cercando di capire di cosa stessero parlando. Poi la nuova diagnosi: idronefrosi al rene sinistro di terzo grado. Ma che cosa stava succedendo ancora una volta? Come era possibile che non ci fossimo accorte anche di questa cosa? Dopo innumerevoli visite e mal di pancia sempre presenti… Ancora una volta bisognava ricorrere ai ripari. Scintigrafia in urgenza, valutazione da parte di un nefrologo pediatrico, prima volta in sala operatoria per il posizionamento di un pigtail per preservare la funzionalità renale. Il primo pigtail, dopo pochi giorni, si spostò. Fu quindi necessario posizionarne un altro; ma per farlo fu necessario andare a Berna, poiché in Ticino non c’erano centri di competenza pediatrici. Al ritorno da Berna, ci venne spiegato che Celine avrebbe avuto bisogno di un intervento chirurgico di cistoplastica. La fortuna non ci assistiva e anche il secondo pigtail si spostò. Fu necessario tornare in sala operatoria per riposizionarne un terzo. Successivamente, fummo convocati a Berna dove Celine venne sottoposta all’intervento chirurgico previsto. 

Ho riassunto questa fase della sua vita, ma vorrei sottolineare che è stata altrettanto faticosa per Celine.

Era sempre più “aggredita” da tutte queste metodiche invasive che andavano a “toccare” anche parti del suo corpo in crescita. Un corpo che si stava sviluppando da bambina a donna.

Dover posizionare più volte pigtail, cateteri vescicali, era molto disagevole per lei. Celine era un corpo che non aveva mai pace e un’anima sempre più ferita dai diversi colpi che doveva sopportare.  

L’impatto degli eventi raccontati su di lei è difficile da comprendere, ma è stato devastante. Ad oggi combatte con “il mal di vivere”. È stata una guerriera in tutti questi anni. A scuola ha conosciuto anche il bullismo ed è arrivata a pensare che non avesse più senso vivere. Nel corso del tempo ha sviluppato un interesse per la cultura ed è affascinata dalla storia e dalla letteratura; infatti, è riuscita a terminare il liceo con il massimo dei voti. I docenti hanno sempre lodato i suoi risultati e il suo impegno. 

Le persone che la conoscono rimangono colpite e affascinate da lei, dicono che ha un animo sensibile e che è una persona speciale. Ma ogni sera concludo la giornata pensando: «È riuscita a vivere un altro giorno, spero che sarà così anche domani». 

Questo racconto non vuole puntare il dito verso nessuno, ma vuole essere un monito per noi curanti.

Penso anche che ci siano famiglie “destinate” a convivere con la sofferenza e l’incertezza. Infatti, dopo tre anni dalla diagnosi di morbo di Crohn per mia figlia minore, purtroppo anche mia figlia più grande ha iniziato a sviluppare una sintomatologia analoga ma diversa. Ha iniziato a soffrire per una ragade anale, bruciori di stomaco sempre presenti e, vedendo cosa era successo con Celine, la gastroenterologa ha messo insieme gli elementi e ha fatto fare la gastroscopia e colonscopia a Noemi che all’epoca aveva sedici anni. Purtroppo, anche a lei è stata diagnosticata la stessa patologia, ma “fortunatamente” non ha dovuto vivere le stesse esperienze. È stata presa a carico rapidamente e, nonostante anche per lei si sia aperta una strada tutta in salita, lei è stata ascoltata e non ha dovuto dimostrare fino allo sfinimento di non stare bene. 

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