16 aprile

Un racconto 

Nadia, ricordi i pomeriggi sdraiati sull’erba appena falciata osservando una farfalla portata da un refolo? Ricordi le giornate primaverili passate osservando il disegno delle nuvole? Ascoltando la delicatezza del vento che muoveva le foglie dei faggi, mentre le primule fiorivano tra i nostri primi baci? Ricordi le giunchiglie che colmavano il nostro olfatto? E quando l’incavo del mio collo accoglieva le tue labbra morbide, incapaci di staccarsi dalla mia pelle? Ricordi? E poi, quei pomeriggi passati tra le lenzuola infuocate? Quando la mia mano scorreva tra le tue cosce e proprio lì capivo quanto il tuo desiderio fosse uguale al mio? Ricordi? Ricordi, Nadia? 

Ci legava la passione, la voglia di vivere, di sperimentare, la curiosità di conoscere ogni recondito anfratto dell’altro, la visione di un futuro abitato da noi due e da un numero imprecisato di bambini. Tutto questo era chiaro e manifesto, divino e nobile sotto i nostri occhi e sotto gli occhi di tutti. Creava gelosia, perché solo pochi raggiungono un’intesa così viva, equilibrata; così, come la nostra. 

Ricordi la ribellione contro i nostri genitori? Loro volevano un matrimonio “come si deve”, un banchetto, tanti invitati che nemmeno conoscevamo. Noi non lo capivamo. Il nostro era un anelito di unione eterna, la semplice promessa di un legame che non sarebbe finito mai.  

Ma il tempo passava e i bambini non arrivavano. Io, ingenuo, non avevo letto il tuo disagio. Certo, avevo capito che la situazione ti turbava, però non percepivo la gravità di questo peso per te e non immaginavo – mai avrei immaginato – quanto sarebbe successo. Ero perso nella ruota della nostra maledetta società, che offusca le vere priorità con termini e scadenze, una società errante che corre a ritroso. La distanza tra me e te aumentava creando un buco e poi un baratro.  

Un tonfo sordo.

Facevo la barba e tendevo la pelle, il rasoio scorreva sul mento e i peli recisi cadevano morti nel lavandino. Quel tonfo, sordo e agghiacciante, dal terrazzo. Affacciandomi al parapetto, vidi la sagoma del tuo corpo bianco e morbido creare un contrasto con l’asfalto duro e scuro. Mai avrei potuto anche solo pensare che…  

Le mie lacrime, come pioggia estiva, mischiate al tuo sangue sparso ovunque: l’ultima nostra unione. Arrivata l’ambulanza, notai che uno dei soccorritori era il fratello della nostra vicina di casa. Non parlammo. Sapevamo entrambi che non c’erano parole capaci di lenire un simile strazio. Una sofferenza tale da stringerti il cuore al punto da credere di non poter più sopravvivere, da arrestare i segni vitali necessari a mantenerti in vita. E io, in quel momento l’ho desiderata tanto, la morte.  

Ci eravamo promessi entrambi l’eterno ma tu mi hai lasciato. Hai scelto la via più semplice per te, quella più difficile per me. Mi hai abbandonato a una realtà vile, color inchiostro. La tua assenza è colmata da un fantasma che ora mi segue ovunque. I suoi tarli rosicchiano la mia ragione. Ogni giorno penso se restare o seguirti. Vorrei scappare dal fantasma, svegliarmi la mattina e scoprire che tutto è stato solo un brutto incubo; abbandonarmi, lasciarmi trasportare e ritrovarmi in un dolce altrove, dove la tua presenza è una certezza. 

Se ti avessi ascoltata, se ti fossi stato più vicino avrei potuto forse salvarti. Sono un uomo mutilato, senza più gambe per poter camminare, solo stampelle per restare in piedi. Ogni giorno il fantasma tenta di farmi cadere. Sopravvivo. 

A volte incrocio quel fratello della nostra vicina e non riesco a guardarlo in faccia, la sua presenza mi riporta a quel giorno, a quella tua sagoma morbida sull’asfalto duro. Ti cerco ovunque, mi alzo la mattina credendo che tu sia lì accanto a me, a volte apparecchio per due, il tuo spazzolino è rimasto accanto al mio e il tuo numero è ancora il primo nella lista dei preferiti. 

Oggi che scrivo è il 16 aprile, son passati due anni. Scrivo per dirti che ancora ti cerco nell’odore dell’erba appena falciata, nelle figure disegnate dalle nuvole, ascoltando la delicatezza del vento che muove le foglie dei faggi. Ti cerco nel profumo di giunchiglie. Ti sento nel brivido che scuote l’incavo del mio collo. Ti vedo nella farfalla portata da un refolo. Voglio cercarti così, voglio continuare a farlo perché è l’unica cosa che mi rende vivo. 

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