Una vita sotto attacco

Un racconto di Pierpaolo Vettori 

Soffro di attacchi di panico da trentadue anni. Il verbo è usato correttamente, infatti gli attacchi di panico non si “hanno”, si “soffrono”. Trentadue anni: undicimilaseicentottanta giorni. È un periodo così lungo che non ricordo cosa significhi vivere senza quel groppo d’angoscia che ti stringe lo stomaco e ti costringe a rinunciare alla vita.  

Ogni tanto mi capita in mano una vecchia fotografia; mi rivedo bambino o adolescente e capisco che quella persona sono io ma non riesco a riconoscermi in pieno: il ragazzo che mi guarda dalla foto non ha paura, sorride, si mette in posa e fa smorfie divertite. Dunque, anch’io sono uscito a giocare in cortile e ho camminato per le vie del centro senza accorgermi di avere un corpo. Mi sembra impossibile.  

Quando vedo un gruppo di persone chiacchierare di fronte a un negozio d’abbigliamento o osservo la gente in coda al supermercato, io le invidio. Invidio tutti quelli che non conoscono il terrore di svegliarsi al mattino, l’angoscia di guardare per la prima volta fuori dalla finestra, di accendere il gas per prepararsi la colazione, di fare tutte quelle piccole azioni banali e quotidiane che per me sono un tormento. 

Ricordo la prima volta che il panico ha preso possesso della mia esistenza; erano gli anni Novanta ed ero al cinema con un gruppo di amici. Verso la metà del film, mi sono sentito male. Mi sono alzato perché volevo uscire a prendere un po’ d’aria e d’improvviso il mondo è diventato nero. Mi sono svegliato all’ospedale. Diagnosi: sanissimo. In quegli anni, perlomeno in Italia, non si conosceva neppure il nome degli attacchi di panico. Nessuno ne soffriva o almeno così sembrava. Sono stato uno dei primi. Ho passato due interi anni chiuso nella mia stanza, con il terrore di uscire. Appena provavo ad aprire la porta, il mondo mi si accartocciava addosso e svenivo. Non sapendo come curarmi, i medici mi hanno dato di tutto. Ho provato pastiglie, gocce, psicologi, psichiatri, agopuntori, training autogeno, santoni new age, e cialtroni assortiti. Risultati: zero. Nella mia stanza scrivevo, scrivevo in maniera compulsiva, cercando di trovare una risposta tra le parole che riempivano i miei quaderni. Immaginavo la vita che non potevo vivere. 

In casi come questo, neppure gli amici o i familiari sono di grande aiuto; non capiscono e, del resto, come potrebbero? Per loro, la paura è qualcosa di concreto: temono una prova d’esame, un’operazione chirurgica o un incidente stradale. La frase che mi sono sentito dire con maggiore frequenza in questi anni è stata: «Non vedi che non c’è nulla da temere? Fatti forza, affronta la vita come tutti». È proprio questo il punto: noi che soffriamo di attacchi di panico non siamo come tutti e sappiamo benissimo che non c’è un pericolo reale e imminente che ci minaccia. Tuttavia, siamo terrorizzati. Abbiamo paura di morire. Sempre. 

Così, assieme all’invidia per quelli che non sanno nulla di noi, sorge anche un piccolo rancore nei confronti del mondo. Del resto, anche noi meritiamo qualche ora di serenità, di pacifico cazzeggio, un pomeriggio fatto di sole e di niente. A volte è come essere nel romanzo L’invasione degli ultracorpi, solo che le creature aliene e malvage che sembrano del tutto normali sono proprio le altre persone, sono il resto del mondo. 

In questi anni, la paura è diventata la mia vera compagna, la moglie non voluta. Con nessuna persona sono stato così a lungo; una relazione solidissima, blindata direi, che non ha nessuna intenzione di finire. Ho chiesto una soluzione ai medici, ai libri e anche a Dio, ma non ho avuto risposte.  

In conclusione, ormai so che il panico sarà sempre con me, così adesso mi vendico scrivendone, urlando qui la mia rabbia, la mia impotenza e tutto il magma di sensazioni che mi hanno accompagnato come un demone medievale appollaiato sulle spalle. Se non posso liberarmi di lui, almeno posso denunciarlo, mettere nero su bianco cosa si prova a vivere una vita minore. La scrittura quindi aiuta? Sarebbe bello che dicessi di sì: tutti desideriamo che il male possa essere sconfitto dalla volontà o dal talento. 

Purtroppo, sono balle.  

Si scrive per mandare un messaggio nella bottiglia, per dire al dolore: «tu mi domini ma non puoi chiudermi la bocca». Non serve a guarire, questo no, ma serve a resistere. È già qualcosa.  

Addendum

Ricevo un messaggio in Whatsapp da un amico, mio e della Fondazione Sasso Corbaro, per la quale è già stato ospite virtuale in ben due occasioni: questa e quest’altra. 

«Ciao Nicolò, ho scritto un pezzo sugli attacchi di panico che potrebbe interessarti». Allora… conto tenuto che il tema è di estrema importanza e interesse per quello di cui ci occupiamo sui Sentieri, e visto che l’amico in questione è lo scrittore Pierpaolo Vettori… beh, non ci ho messo più di una decina di secondi a rispondergli: Mandamelo subito! 

Ringrazio di cuore Pierpaolo per il regalo molto gradito che ha fatto a noi ma soprattutto a Voi: i nostri lettori.  

Pierpaolo ci tiene a rendere noto che l’articolo non è inedito, essendo già comparso su una newsletter per soli abbonati del Corriere della Sera di nome “Futura”.  

Nicolò S. Centemero 

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