Esplorando la paternità del terzo millennio

Intervista al Dott. Luca Nozza 

In un mondo in costante evoluzione, dove le dinamiche familiari e sociali si trasformano rapidamente, la figura del padre emerge come protagonista cruciale nella crescita e nello sviluppo dei figli. Luca Nozza, pedagogista con oltre vent’anni di esperienza nell’ambito dell’educazione e della formazione, si presta ad esplorare il significato e l’importanza della paternità nell’era contemporanea. 

Luca Nozza è un pedagogista, marito e padre di tre figlie. Da più di venti anni si occupa di educazione incontrando storie di umani e condividendo con loro spazi e tempi di parole e silenzi. Attualmente si occupa di progettazione sociale per l’Ambito Territoriale di Abbiategrasso in provincia di Milano, è Referente Territoriale del programma P.I.P.P.I. Da 10 anni conduce cerchi di padri per parlare di paternità. Sostiene che il suo è il lavoro più bello del mondo. 

Nel tuo blog scrivi che «quando nasce un figlio nasce anche un papà». Cosa cambia in un uomo quando diventa genitore? 

«Mio figlio, mia figlia, mi ha stravolto la vita!». Questa è la frase che ho sentito dire più spesso dai papà che ho incontrato nel corso di questi ultimi 10 anni. La paternità è una dimensione che vive dentro di noi, nascosta, per lo più inconsapevole fino a quando un uomo si sente dire: «sarai padre!». In quel momento inizia il movimento mentale della gravidanza paterna. Sottolineo mentale… come uomini non viviamo trasformazioni fisiche, le vediamo nel corpo della nostra partner. Come uomini iniziamo a porci una domanda, che sarà esistenziale ed essenziale: “che padre sarò?”. Siamo proiettati nel futuro. Dico sempre che la gravidanza paterna dura almeno 18 mesi, i 9 della gravidanza (endogestazione) e i 9 mesi successivi (esogestazione). Sono i 18 mesi vitali per la vita dei bambini e delle bambine, il periodo in cui la relazione con la mamma (una mamma sufficientemente buona, come la definisce Winnicott) consentirà loro di andare a scoprire il mondo con sicurezza e curiosità.  

Cosa succede ad un uomo in questi 18 mesi? Si scopre papà. Inizia a prendere coscienza che la sua storia non terminerà con la sua vita, ma proseguirà nella storia del proprio figlio o della propria figlia. Scrive Luigi Maria Epicoco che «la paternità nasce quando si desidera che la propria storia dia inizio ad altre storie. Quando si desidera di non diventare la fine di una storia, ma il motivo per cui possono iniziare altre storie possibili» (L.M. Epicoco, Telemaco aveva ragione). 

In definitiva, quando un uomo diventa padre modifica totalmente le proprie priorità.   

Grazie al tuo lavoro viaggi per tutta l’Italia ed incontri papà giovani e meno giovani. Come sono i nuovi padri degli anni 2020? 

“Hic sunt leones”, era l’espressione utilizzata nelle carte geografiche antiche per indicare le zone ancora inesplorate dell’Africa. La paternità si trova in questo confine. I padri di oggi sono pionieri, esploratori di uno stile e di una modalità nuovi rispetto al passato. Non migliore o peggiore, semplicemente differente. Il modello di padre che abbiamo incontrato nella nostra vita di figli oggi non ci corrisponde più. Alcuni esempi. La maternità e la crescita dei figli sono state per secoli una questione “di donne”, la presenza del padre alle visite e al parto non era così scontata, il padre era il lavoratore che doveva provvedere alla famiglia. I cambiamenti sociali e culturali in atto comportano una rivisitazione di queste pratiche: oggi l’uomo vuole essere presente ad ogni visita, vuole condividere il momento del parto, desidera partecipare attivamente alla crescita del proprio figlio o della propria figlia. Durante la recente pandemia, tutto questo è stato messo in discussione. Ho sentito il racconto di padri sofferenti per non essere stati presenti. E altri racconti di padri che seguivano le visite ginecologiche dalle finestre all’esterno degli edifici pur di esserci. Questa, mi sembra, è la caratteristica della paternità di questo inizio di secolo: il desiderio di esserci e di capire. L’uomo/padre di oggi non delega alla donna/madre la gravidanza e la genitorialità, ma riscopre la bellezza di un cammino condiviso e di una storia che si apre alla generazione di altre storie. 

In che modo i padri possono promuovere l’educazione emotiva nei loro figli, aiutandoli a gestire le emozioni in modo sano e rispettoso? Quali sono gli aspetti chiave dell’educazione emotiva che i padri dovrebbero considerare nella formazione dei loro figli? 

Abbiamo uno strano rapporto con le emozioni. Almeno come uomini (generalizzo per farmi capire meglio), che per secoli abbiamo cercato di evitare il contatto con loro. L’ombra del “machismo” ci ha annebbiato lo sguardo. Non è da molto che ci siamo aperti a questa dimensione emotiva che, in realtà, si è rivelata parte essenziale del nostro essere. Ma è ancora sconosciuta, talvolta ignorata. Prima di educare i nostri figli, dobbiamo iniziare ad educare noi stessi alle emozioni. Quante emozioni conosci? Prova, adesso, mentre leggi queste righe a fermarti e ad elencarne qualcuna… quante te ne sono venute in mente? Ne esistono più di cento tipi, a volte sono sfumature. Io stesso non le conosco tutte e vorrei imparare ad ascoltare meglio il mio corpo per scoprirle.  

Con i bambini e le bambine si utilizza molto il rispecchiamento emotivo che si traduce nella possibilità di indagare l’emozione vissuta dall’altro/a attraverso la narrazione di ciò che si vede accadere all’esterno del corpo o attraverso l’utilizzo di domande che provano ad indagare cosa accade all’interno del corpo.  

L’educazione emotiva si realizza nel desiderio di un padre (e di una madre) di osservare il proprio bimbo e la propria bimba, nel “perdere” tempo e nel perdersi nell’altro/a acquisendo la capacità dello sguardo. Ecco come lo definisco: sguardo, voce del verbo sguardare, prima coniugazione, capacità degli umani di osservare le storie di atri umani da diversi punti di vista. L’educazione emotiva inizia dalla capacità di perdersi nell’ascolto, dalla capacità di fare silenzio per ascoltare, osservare, provare a capire, individuare possibilità, creare sintonie. 

L’educazione dei padri può iniziare ad abbandonarsi su questi sentieri nuovi. È la caratteristica della paternità di oggi, lo abbiamo detto prima, come pionieri possiamo addentrarci in una terra sconosciuta con lo spirito del ricercatore. Diventiamo compagni – parola bellissima, dal latino “cum – panis”, mangiare insieme il pane, sedersi alla stessa tavola – dei nostri figli e delle nostre figlie in questo percorso educativo. 

Oggi abbiamo famiglie con un solo genitore oppure con due genitori dello stesso genere. Quali sono le sfide e le opportunità nell’affrontare le questioni legate ai nuovi modelli familiari all’interno sia della società che dell’ambiente educativo? 

Entriamo in un tema molto delicato e discusso, che scatena posizioni contrastanti, anche con toni accesi. Devo dire, onestamente, che anche io sto cercando di costruirmi un’idea su questo tema o, meglio, su questi temi. Perché i temi in gioco sono due. Da un lato, c’è il tema delle famiglie monogenitoriali e, dall’altro, c’è il tema delle famiglie con genitori dello stesso genere. Provo ad allargare la questione. 

La paternità (così come la maternità) ci viene raccontata dalla vita di nostra madre e di nostro padre: da entrambe noi impariamo cosa significa essere padre e cosa significa essere madre. Ciascuno di noi ha una sua teoria su come debbano essere un padre e una madre, su cosa debbano fare, come dovrebbero reagire alle situazioni del quotidiano. Questa idea si trasforma in scelte e azioni educative. Fin dal primo giorno. Ogni scelta che compiamo come padri e madri si riferiscono all’idea del buon padre e della buona madre che ci siamo costruiti. Ma, quello che più conta ed è necessario – potrei dire vitale – è rispondere ai bisogni dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze. Il punto non è, quindi, la composizione della famiglia, ma acquisire la capacità di rispondere ai bisogni dei figli. Non riuscire a fare questo significa essere genitori negligenti. E, ripeto, al di là della tipologia di famiglia. La negligenza si descrive proprio come la mancata risposta dei genitori ai bisogni di crescita e di sviluppo dei figli. Il tema, dunque, si sposta su ciò che è essenziale. Sulla sostanza e non sulla forma.  

Diventare dei padri e delle madri sufficientemente buoni, capaci di accompagnare i propri figli e figlie nel mondo rimane la sfida e l’opportunità più grande che dobbiamo affrontare. Oggi come ieri. In perfetta continuità con tutti i padri e le madri dei secoli passati. 

Spesso si sente dire che “la scuola insegna e la famiglia educa”. Eppure, sono sempre stato convinto del ruolo educativo della scuola. In che modo l’educazione formale può collaborare in modo efficace con l’educazione informale, come la famiglia e la comunità, per creare un ambiente educativo più completo e integrato? 

Un noto proverbio africano dice che “per crescere un bambino, ci vuole un villaggio”. Mi sembra che vada dritto al punto della questione: la crescita e lo sviluppo dei bambini e delle bambine non dipendono solo dai genitori. La comunità ha un ruolo centrale nel processo educativo e di crescita umana dei piccoli. Ho incontrato diverse storie di padri e madri in difficoltà perché isolati, lontani dalle famiglie originarie e sganciati da reti amicali nel contesto di vita. L’umano è per natura un essere relazionale, vive di legami. Diventa sempre più umano nel e grazie al rapporto con altri umani.  

La scuola è un contesto di vita speciale, è un’occasione concentrata di vita. A scuola i bambini e le bambine iniziano a sperimentare un ambiente caratterizzato da regole che si pone l’obiettivo di favorire la costruzione del sapere. O, meglio, dei saperi. Il tema della scuola apre differenti riflessioni. Prima fra tutte quella della conoscenza: cosa significa oggi conoscere e imparare? Il tempo di oggi è caratterizzato dalla facilità di accesso alle informazioni, che ricaduta questo ha sul ruolo dell’insegnante? Pennac descrive i maestri come degli «indimenticati», adulti che si riveleranno decisivi, capaci di aprire «una finestra sul futuro» e ai quali «riconosciamo che senza di loro non saremmo ciò che siamo» (D. Pennac, Una lezione d’ignoranza). Non vale lo stesso per i genitori?  

Si parla tanto di corresponsabilità educativa tra famiglia e scuola. Spesso viene vista come una delega della famiglia alla scuola, mentre rappresenta la possibilità di integrare gli sguardi degli adulti che si prendono cura dei più piccoli. Non esiste, dunque, una contrapposizione tra i due ambienti ma una continuità che nasce dalla fiducia e dalla stima reciproca. Come genitori, abbiamo fiducia nella scuola e negli insegnanti? Come insegnanti, abbiamo fiducia nei genitori? Se salta, questa, infatti, una delle due cerca di coprire le presunte mancanze dell’altra e viceversa, individuandola come colpevole degli eventuali fallimenti. È, questo, un passaggio complicato perché richiede a ciascuno di vivere in una dimensione di reciprocità. Letteralmente: recus (faccio un passo indietro) e procus (faccio un passo avanti).  

È necessario, a mio avviso, che entrambe le agenzie educative (famiglia e scuola) provino ad uscire dalla logica prestazionale per assumere una logica esperienziale. I bambini e le bambine (ma anche i ragazzi e le ragazze) possono imparare all’interno di un ambiente significativo in cui la cultura del sapere genera umani desiderosi di conoscere, scoprire, imparare, documentarsi, porsi delle domande e abbandonarsi al gusto della ricerca.  

Nelle ultime settimane il tema della violenza sulle donne è tornato un tema su cui si sta dibattendo molto. Qual è l’importanza dell’educazione dei padri nel prevenire la violenza di genere? Come possiamo incoraggiare i padri a promuovere un ambiente in cui la violenza di genere è condannata e combattuta attivamente? 

Il tema della violenza sulle donne è delicato. Sta diventando un’emergenza ed è una questione che ci obbliga a delle riflessioni. Sento parlare molto della necessità di attivare percorsi di educazione emotiva o affettiva, che, sicuramente, sono importanti e utili. Credo, però, che la questione sia ancora più profonda e, per questo, più complessa. Provo a sintetizzarla con una parola: riconoscimento.  

Il riconoscimento è un concetto che si contrappone all’idea di reificazione, che Honneth definisce come «un’abitudine di pensiero, una sorta di prospettiva irrigiditasi in abitudine, la cui adozione fa perdere agli individui la capacità di rapportarsi alle persone e agli accadimenti in modo partecipativo e impegnato» (A. Honneth, Reificazione). Il termine “reificazione” rimanda all’idea dell’altro come oggetto (da res, termine latino che significa “cosa, possesso”) e, in qualche modo, evidenzia una tipologia di legame caratterizzato dal potere e dalla sottomissione.  

Allora diventano centrali le domande: “chi sei tu?” e “chi sei tu per me?”. È qui che nasce il riconoscimento dell’altro come umano che intreccia la sua storia con la mia per un tempo in-definito. Ed è un tempo di cura reciproca. Vorrei provare a smilitarizzare le parole, ad uscire dal tranello dell’idea di una battaglia e di una lotta che si deve combattere. L’educazione non ha nulla a che vedere con il dovere, con la forza, con l’autorità. L’educazione che, come padri (e madri), possiamo agire nel nostro quotidiano per educare i nostri figli e le nostre figlie assume le caratteristiche della tenerezza e della delicatezza, della proposta e della testimonianza. La cura esce dal concetto di “curing” per assumere la postura del “care”, che don Milani ci ha abituato a conoscere. Riconoscere l’altro/a si realizza nella capacità di prendersi cura della relazione che ho con lui/lei (non di prendermi cura direttamente di lui/lei), nella capacità di creare occasioni di incontro, in cui io e te ci possiamo incontrare. Che cosa respirano, osservano e vivono i nostri figli e le nostre figlie nel rapporto tra padre e madre? Che eredità stiamo loro consegnando nella nostra quotidianità familiare?  

Considerando l’evoluzione della società, quali sfide i padri dovranno affrontare nel prossimo futuro. Quali competenze e valori ritieni essenziali per i padri per preparare i loro figli ad affrontare le sfide del futuro? 

Provo a lanciare alcuni spunti. La paternità acquista significato solo a partire dal rapporto di coppia. Prima di essere padri, siamo partner (mariti, compagni, …): la memoria dell’origine diventa segno vivo perché riconosce un percorso, una dinamicità di una relazione a due fatta di gioie e dolori, entusiasmi e delusioni. Il rischio – e la sfida – è di rivolgere gli occhi verso i figli e distoglierli dal/la partner. Allora è importante imparare a valorizzare i ritagli di tempo, perché nella vita di una famiglia, a volte, rimangono quelli. E si potrebbe scoprire che nell’arco di una giornata i ritagli sono molti e la cura di quei momenti potrebbe generare incontri sorprendenti. 

Un secondo spunto è legato al desiderio di scoprire. Abbiamo sottolineato in precedenza che i padri di oggi sono ricercatori, ecco il desiderio di vivere la paternità ci spinge a percorsi inediti, a scelte differenti, a distacchi dal passato. Non avere paura di lanciarsi in questa avventura diventa una sfida necessaria: “che padre sarò?”, è una delle prime domande paterne. Vivi, oggi, la tua paternità. Al meglio che puoi. Da “grande” potrai chiederti “che padre sono stato?”. 

Un terzo spunto. Come padri (e madri) dobbiamo fare i conti con la perdita. Viviamo nelle storie paterne (e materne) delle perdite graduali: il potere di vita e di morte, la capacità di controllo, il potere decisionale, … sono il segnale che i figli crescono e iniziano a definire la loro identità. Diventano donne e uomini interdipendenti. Ecco, dunque, un’altra sfida paterna: crescere delle donne e degli uomini che sappiano di essere dipendenti dalle altre persone. È necessario sfatare un po’ il mito dell’autonomia, intesa, in senso etimologico, come il potere di dare legge a sé stessi. Noi siamo fatti di e per la relazione. 

Un ultimo spunto. I limiti. Una volta un papà, in un cerchio, aveva condiviso questa riflessione potentissima. «Io ho riscoperto mio padre nei suoi limiti, nelle sue imperfezioni, nei suoi errori, nelle sue mancanze. Ho riscoperto un uomo che ha fatto per me tutto quello che era in suo potere. Oggi, non posso che ringraziarlo!». Non avere paura delle proprie incapacità e mancanze, sono proprio quelle che raccontano il desiderio di superarle, accettarle. Anche e soprattutto nella relazione con i propri figli, perché, dico sempre, che in educazione sono importanti tutte le situazioni e ogni occasione si può trasformare in spazio e tempo per imparare ad essere umani. È come per il maiale, non si butta via niente! 

Ruberei, per chiudere, una frase di John Lennon come monito per i padri di oggi: «Life is what happens to you when you are busy making other plans», la vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a fare altri progetti. 

2 pensieri su “Esplorando la paternità del terzo millennio

  1. Honeyburn review dice:

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