Sine materia

Intervista al poeta, scrittore, traduttore e insegnante di liceo Massimo Gezzi 

Partiamo dall’inizio e arriviamo diretti, teletrasportandoci, a oggi: Massimo Gezzi è nato nel 1976 in Italia, a Sant’Elpidio a Mare, e dopo un tot di anni, adesso vive in Svizzera, a Lugano. Per ora, vi basti sapere che io e Massimo ci conosciamo da poco e ci conosciamo perché entrambi collaboriamo con due realtà Ticinesi che si occupano di diffondere la Letteratura: il festival ChiassoLetteraria e La casa della letteratura per la Svizzera italiana 

Massimo, ti ho introdotto stando molto sul vago perché mi piacerebbe fossi tu a dire, a chi ci legge, chi sei, di cosa ti occupi e come sei arrivato a fare le tante cose che fai. 

Sembra facile rispondere, ma non lo è. Devo dire prima che sono un docente? O che sono uno scrittore? Provo così: sono uno che, da quando ha incontrato la grande letteratura, ha capito che quella cosa lì era importante e lo riguardava. Da allora quel ragazzo non ha mai smesso di cercare dentro i libri delle domande, delle risposte, delle cose che non sapeva. A un certo punto ha preteso di poterli scrivere pure lui, libri come quelli che gli piacevano tanto, e ha cominciato a comporre versi. A mostrarli timidamente a qualcuno. E alla fine, dopo un’edizione semiclandestina, a 28 anni ha pubblicato il suo primo libro di poesia. Da lì è partito il viaggio – ora smetto di fingere e parlo in prima persona – che mi ha portato a pubblicare quattro o cinque raccolte, un libro di racconti e varie edizioni di commento di altri poeti (Montale, Di Ruscio, Buffoni, ecc.). Nel frattempo, ho lavorato come Assistente all’Università di Berna, dopo essermi formato a Bologna e Pavia, e un giorno qualcuno mi ha detto: «Sai che in Ticino apre il concorso per diventare docenti?». Ci ho pensato, ho presentato la domanda ed eccomi qua, da dieci anni fra le mura del Liceo cantonale di Lugano 1 a insegnare italiano, con una famiglia ormai radicata in Svizzera. È stato un bel viaggio che continua quotidianamente, anche se è molto complicato coniugare la professione di insegnante, che cerco di svolgere al mio meglio, e la scrittura. Ci provo come posso. 

Prima dell’intervista, quando ti chiesi se ti andasse di fare due chiacchiere con me da pubblicare su questa rivista on-line, ti dissi che mi sarebbe piaciuto, in primis, trattare l’argomento scuola, o meglio, l’argomento giovani che vanno a scuola oggi: parlare, insomma, dei ragazzi a cui insegni. Mi racconti qualcosa di questa Gen Z? 

La generazione Z è una generazione strana. È una generazione a cui il libro e persino il computer sembrano generalmente strumenti vecchi; una generazione piena di interessi e di curiosità che soddisfano su internet, che per loro è sinonimo ormai di verità assoluta. Sono ragazze e ragazzi che cercano di barcamenarsi in un mondo che chiede loro di emergere, di essere visibili, belli, vincenti, in un modo o nell’altro. E naturalmente questo a volte – sempre più spesso – provoca ansie, pressioni incrociate. Forse è una delle prime generazioni che deve affrontare il mondo dopo che tutti, ma proprio tutti gli indicatori stradali sono caduti: la religione è evaporata, la politica è spesso incomprensibile o lontana, i valori traballano (la musica trap, per esempio, esibisce il rovesciamento sistematico di molti valori), le ideologie sono un fossile di cui resta solo il guscio più duro e violento. Anche la famiglia ormai è liquida, per dirla con Bauman: insomma, devono cominciare a cavarsela sin da subito e con armi non omologate, diciamo così. Per questo quando trovano qualcosa che li salva ci si aggrappano con forza, anche se a volte rischiano di non trovare niente per lungo tempo. La scuola a volte tende a trattarli come li tratta il mondo: li mette continuamente alla prova, non dà loro tempo per sbagliare, per capire, li incalza con una miriade di verifiche. Mi pare che Einstein dicesse che perdere tempo, attraversare la noia, è una delle cose più importanti, per un giovane: a volte la scuola, pretendendo di essere una palestra per il futuro (“bisogna che imparino come funziona la vita…”), si dimentica colpevolmente di tutto questo.  

Come sai, sui Sentieri nelle Medical Humanities i temi di cui ci occupiamo – sempre montando un obiettivo grandangolare che ci permette di mantenere una visione molta ampia – sono quelli della salute, della malattia, della cura, della bioetica… ecco, rimanendo ai tuoi ragazzi, ai Gen Z, mi dici se ti capita mai di parlare di questi argomenti, spesso anche ostici, con loro?  

Certo, mi capita. Non solo perché molti ragazzi e molte ragazze attraversano la malattia o il malessere psichico e la scuola (docenti e direzioni) cerca di aiutarli come può, cioè accogliendo quel malessere e non colpevolizzandolo (o almeno spero che sia così!), ma anche perché la letteratura è piena di malattie e sofferenze ed è un’enorme “formazione di compromesso”, come sosteneva Francesco Orlando. Cos’è lo smarrimento di Dante se non un momento difficile, tragico della sua vita che forse ora chiameremmo depressione? O il dissidio interiore di Petrarca? E Leopardi, che molti continuano a etichettare come un povero gobbo (malgrado tutti gli sforzi che si fanno per distruggere i pregiudizi), per altri è invece uno che ha trovato le parole per dire un dolore, un disagio profondo che forse riguardano molti ragazzi e che talvolta provocano loro vergogna. Trovare uno scrittore che pronuncia parole contro il mondo, contro lo scintillante ottimismo che vorrebbe che questo fosse il migliore dei mondi possibili, invece, a quell’età è fondamentale. Cerchiamo di parlare di tutto, anche di bioetica, e anche qui la letteratura ci può aiutare. Insomma, io credo ancora – penso che si sia capito – che la lettura e la riflessione siano uno strumento formidabile per capire meglio il mondo di oggi, anche se il libro che stiamo leggendo è stato scritto duemila anni fa. Dentro l’aula, cerco di farmi mediatore culturale e di trasmettere soprattutto questo. 

Ho voluto titolare questa intervista Sine materia come uno dei racconti che fanno parte del tuo libro Le stelle vicine, uscito per l’editore Bollati Boringhieri nel 2021. Ho amato molto quella storia e pure quel sine materia senza causa volendo renderlo in italiano. È una locuzione usata in medicina quando noi medici non siamo in grado di trovare un riscontro organico alla base di un sintomo o di una malattia. Passiamo quindi al secondo grosso tema sul quale vorrei concentrarmi con te ora: la scrittura. Tu nasci come poeta, ma con Le stelle vicine hai scritto e scrivi anche prosa. Mi dici come questi due universi, che a chi come me la letteratura la affronta solo da lettore paiono così distanti, possano convivere e, io penso, anche influenzarsi a vicenda? 

Un mio amico scrittore, Francesco Targhetta, in un’email privata ha fatto un’osservazione che mi ha molto colpito e che mi sembra giustissima. Dice Targhetta che nella prosa non ho portato nulla della mia poesia, tranne una caratteristica: il mio sguardo. Mi sembra una considerazione molto calzante, perché in prosa sono riuscito a toccare temi e registri che in effetti la mia poesia non toccava, o cominciava ad attraversare solo negli ultimi anni, quando ho pubblicato diversi racconti in versi, chiamiamoli così (penso per esempio a Uno di nessuno. Storia di Giovanni Antonelli, poeta, uscito per Casagrande nel 2016, un poemetto che narra la vita di un poeta pazzo e anarcoide nato nel mio stesso paese, nelle Marche). Dopo aver pubblicato Le stelle vicine mi sono reso conto che forse avevo ancora delle cose da dire, in prosa, mentre la poesia al momento ha chiuso i rubinetti, tanto che non scrivo versi da più di due anni (che sono comunque pochi, per chi non soffra di FOMO e di incontinenza poetica). Per quello che capisco del mio lavoro, mi pare che lo sguardo, la presa sul mondo siano gli stessi, in prosa e in poesia. Ma quando scrivo in poesia, come molti lirici, non riesco a fare a meno dell’esperienza, della mia esperienza di persona che ha vissuto, pensato, dubitato, amato. In prosa ho imparato a inseguire le vite degli altri, che spesso sono persone lontanissime da me. È divertente e interessante, per cui credo proprio che continuerò…

In almeno un paio dei tuoi racconti di Le stelle vicine tu parli di malattia. La malattia è spesso argomento di romanzi, poesie… fa certamente parte di quel calderone chiamato vita da cui molti scrittori pescano a piene mani. Oggi, forse, mi verrebbe da dire, ancora più che in passato. L’ultimo premio Strega è stato vinto da un libro che parlava di malattia oncologica e disabilità. Ma di esempi ce ne sarebbero moltissimi altri. Qual è il tuo rapporto con il binomio letteratura e malattia e come tu, da scrittore, affronti nei tuoi testi questo argomento?  

Sul rapporto tra letteratura e malattia credo di aver risposto sopra. Aggiungerei solo che se in un libro non c’è qualche pazzo, malato, tormentato forse quel libro non mi interessa (non perché io sia attratto in modo morboso da questi temi, ma perché la vita è fatta così, come possiamo testimoniare tutti). Proprio perché questi temi mi interessano come lettore, quando scrivo finisco per inseguirli e interrogarli: ne Le Stelle vicine c’è un uomo che soffre di epilessia (Il malcaduto), c’è un altro che ha avuto un’emorragia sine materia, come ricordavamo prima; c’è un’anziana malata terminale in preda a strane allucinazioni (L’ultimo saluto di Cattivik). Naturalmente accanto a loro ci sono anche giovani spensierati e persino sfrontati, che non sanno ancora cosa siano la malattia e la morte. La malattia è una realtà che nella vita noi tutti affrontiamo, quando ci va bene non in prima persona (per quanto a volte sia dolorosissimo assistere alla malattia degli altri). È un’esperienza che ci modella, ci cambia la visione del mondo, perché storce qualcosa che prima era dritto, spesso in modo inopinato e imprevisto. Mi pare che questa sia la forza terribile della malattia e la ragione per cui chi scrive ne è attratto: forse ha la stessa funzione che nelle favole avevano l’imprevisto, l’incontro con una persona malvagia. Certo, non bisogna esagerare, perché bisogna saper raccontare anche la normalità, la sanità e la gioia (quante volte i nostri studenti, per tornare un attimo a loro, si lamentano del fatto che la letteratura moderna parli soprattutto di “cose brutte”). Ma io credo anche che non si debba aver paura di mettere i lettori e noi stessi di fronte alla malattia, senza naturalmente far leva su di essa solo per commuovere o suscitare la risposta emotiva di chi legge: preferirei che i libri ci dessero da pensare, a partire da come viviamo noi quando siamo (apparentemente) sani. 

L’ultima domanda che voglio farti è legata a un’altra attività che abbiamo in comune. Siamo entrambi parte di redazioni di riviste on-line. Tu sei infatti il coordinatore insieme a Italo Testa di Le parole e le cose, un sito che cito: «raccoglie testi e interventi di natura letteraria, artistica e politica a scopi culturali e senza alcun fine di lucro». Non nascondiamoci dietro un dito Massimo… ad oggi non è semplice, visto i tanti impegni e visto anche e soprattutto la poca valorizzazione che viene data a queste realtà – poca valorizzazione che di certo non motiva – impegnarsi per portare testi di qualità e che parlino alle persone, prendendosi il loro tempo, provando ad andare nel profondo degli argomenti trattati, provando ad andare oltre alla lunghezza di un Tweet o di un Tik Tok. A volte mi chiedo, son schietto e onesto, ma chi diavolo ce lo fa fare? Senti, provi a darmi una mano a non mollare?  

Ah, qui rischi tu di tirar giù me! Allora provo a reagire e farci coraggio: la tua diagnosi, da medico acuto quale sei, è giusta e impietosa. L’accelerazione costante di cui parlavo prima, il fatto che in media l’attenzione di chi è abituato a interagire con un dispositivo elettronico duri non più di otto secondi (sic), la distrazione continua, rendono difficilissimo leggere, approfondire, pensare. Mi verrebbe da dire che tutto funziona affinché non ci fermiamo a pensare (e tantomeno a leggere). Si deve resistere, a tutto questo, o Resistere non serve a niente, come dichiara un titolo di Walter Siti? Diciamo che io devo resistere, non tanto per un imperativo etico o politico (anche per quello, certo), ma perché se non lo facessi mi sembrerebbe di sprecare la mia vita, i pochi talenti che ho. E perché se io sono così e ho compiuto il viaggio da cui siamo partiti, forse lo devo a qualcuno che ha fatto questa stessa scelta prima di me, anche se poteva sembrare inutile o sbagliata ai più. Un/a docente impara presto, se non vuole impazzire, che non tutti possono reagire come reagisce lui o lei di fronte a una lettura. Ma impara anche, se vuole continuare a fare il suo mestiere, che lì di fronte c’è qualcuno per cui quella stessa lettura, per le ragioni più disparate, è importantissima. E anche che tra quelli che sembrano subirla passivamente forse qualcuno se ne ricorderà. Per cui sì, bisogna continuare a parlare, anche se a volte sembra di prendere a unghiate una roccia. Ti ho convinto? 

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