Approccio alle vittime di violenza domestica in Pronto Soccorso

Una notte in Pronto Soccorso 

Frequentavo ancora le scuole medie quando m’innamorai della professione. Mi sembrò ovvio: cosa c’è di più nobile dell’offrire il proprio mestiere a chi soffre? Basta impararlo. Quindi studiai per poter dire ai pazienti: «Stia tranquillo, so cosa fare, me ne occupo io». Ero motivata, sicura che lo sguardo di sollievo e gratitudine che mi avrebbero restituito i pazienti avrebbe ricompensato le mie fatiche. Appena diventai medico, fu amore a prima vista con il Pronto Soccorso. Quel susseguirsi rapido di incontri, di problemi da risolvere, di pazienti che chiedono l’aiuto che io posso offrire. Dire tante volte al giorno «me ne occupo io» e ricevere altrettante volte quello sguardo. La ferita al dito: «Metto due punti e tornerà come nuovo!». Il mal di pancia: «Capiremo che succede e parleremo delle soluzioni». La febbre: «Ho inquadrato il problema, ora interveniamo». 

L’ingenuo dipinto dell’eroina in camice bianco si scontrò presto con la realtà. Compresi che il medico, anche quello più esperto, e non ero certo io, ha in realtà un piccolo spazio di manovra entro i confini generosamente concessi dalla natura. Ridimensionai il sogno infantile a due obiettivi: fare sempre del mio meglio e continuare a migliorare quel “meglio”, cercando ogni giorno di imparare qualcosa in più rispetto al precedente.  

Durante uno dei tanti turni notte arrivò una giovane donna, bionda e longilinea. Il bel viso era segnato da graffi ed escoriazioni, sulle braccia c’erano piccole macchie blu delle dimensioni di un polpastrello. Notai, inoltre, alcune aree arrossate, lunghe quanto un dito, che si allungavano come fiamme ai lati del collo. Non c’erano dubbi: la giovane era stata picchiata.  

Nel mio fantasticare fanciullesco sulla professionista che sarei diventata, forse avevo immaginato anche di “salvare” una vittima di violenza domestica: mi avrebbe chiesto aiuto, io avrei accolto il suo bisogno, l’avrei curata e fatta scappare dal buio, aiutandola a trovare la strada da percorrere verso un luogo sicuro. 

Motivata dal “tranquilla, me ne occupo io” mi avvicinai, ma mi accorsi subito della sua irritazione.  

«Sono caduta dalla bicicletta. Devo aspettare ancora tanto?» stava ruggendo in faccia all’infermiera. Questa tentava pazientemente di completare le domande del triage, ma la paziente era sfuggente e aggressiva. Toccò a me.  

«Signora. Mi dica bene cos’è successo».  

«Di nuovo? Ma non ascoltate? Fatemi due radiografie, voglio solo sapere se ho qualcosa di rotto. Muovetevi che domani lavoro». 

Mi avvicinai e la visitai, abbozzando le solite formule: si giri, alzi il braccio, respiri a bocca aperta, fa male qui?  

Apparentemente ero sicura di me, ma dentro ero tornata adolescente. Mi pareva di non sapere nulla sulla medicina e sui pazienti, di non avere nulla da offrirle. Come posso aiutare chi non lo vuole? Non ero preparata a questo. Ero solo una ragazzina che aveva studiato tante cose, che in quel momento erano del tutto inutili.  

Non aveva nulla di rotto, almeno non a livello fisico. Le sedetti accanto, avvicinandomi pericolosamente alla parete di filo spinato che lei era riuscita a costruire con uno sguardo. 

«Lei che mestiere fa?» 

 «L’ingegnere». 

«Quando c’è qualcosa che non quadra nel suo progetto, se ne accorge?». Temetti che si alzasse insultandomi e che se ne andasse. Invece rimase sdraiata e guardò il vuoto. Sembrava sconfitta. 

«Si, me ne accorgo», disse in un sospiro. 

«Come io mi accorgo che qualcosa non quadra tra il suo racconto e ciò che leggo sul suo corpo».  

Silenzio.  

«Lei non è caduta in bicicletta. Lei è stata picchiata». 

Silenzio.  

«Io non sono qui per denunciare nessuno, sono qui solo per aiutarla». 

Quella volta non mi fu restituito sollievo o gratitudine. Non c’era nemmeno più la rabbia di poco prima: c’erano solo pianto, disperazione e terrore. Il muro, però, era crollato. Mi sentii vicina al mio obiettivo di cura. Parlammo a lungo, per una fortuita e rarissima eccezione al normale affollamento notturno del Pronto Soccorso.  

Prima non aveva mai subito violenza, era abituata a pensarsi una donna forte.  

Ora, invece, era spezzata nella sua dignità, nella sua immagine di sé stessa. Un dolore più aspro, se confrontato a quello di pugni e calci, che ancora bruciava sulla pelle. 

Rifiutò in modo perentorio qualsiasi forma di aiuto, dalla denuncia formale all’allontanamento in casa protetta o al ricovero in ospedale per darsi il tempo di riflettere. Rifiutò anche il contatto con qualsiasi conoscente o parente che le potesse offrire un’alternativa al rientro in quella casa. Per vergogna? Paura? Confusione? Cieco innamoramento del compagno? Superficialità? Quel che è certo, è che non ha voluto il mio aiuto. 

Forse ho fatto del mio meglio, di sicuro ci ho provato. Ma ho sentito di non essere abbastanza forte di fronte a quella situazione, di non aver studiato abbastanza, di non avere tutti gli strumenti di cui avevo bisogno. Avevo intravisto per caso una fessura attraverso la quale tentare un contatto con quel dramma, per poterla “curare”, ma avevo fallito. Continuo a imparare per essere meglio del giorno precedente, meglio di quel giorno. Ma non mi sentirò mai abbastanza preparata, perché non c’è paziente più difficile di chi non è pronto a farsi aiutare.   

La vittima di violenza domestica è questo: è un malato nel corpo e nell’anima, che la maggior parte delle volte accetta il proprio male. Lo fa per una serie di motivi troppo radicati nella sua vita per poterli scoprire e comprendere in quel breve tempo di cui disponiamo in Pronto Soccorso. Spesso lo fa per paura di perdere il tetto che ha sopra alla testa, qualche volta addirittura per paura di perdere i propri figli. Altre volte lo fa perché è ancora profondamente innamorata, emotivamente dipendente dal suo aguzzino. Oppure perché si vergogna del giudizio di parenti, amici o vicini, ai quali ha venduto una falsa immagine di coppia perfetta. 

Sono pazienti difficili; non saremo in grado di curarli tutti. Personalmente cerco di rimanere fedele alla promessa che mi sono fatta tanti anni fa: farò del mio meglio, e proverò ogni giorno a trovare più strumenti per riconoscere le vittime anche quando non hanno addosso la firma del proprio aggressore, per avvicinarle anche quando non vogliono ammettere il loro problema, e per metterle in protezione, convincendole che è la scelta migliore. 

Commento  

Ogni anno sono più di 200 le persone, donne nella stragrande maggioranza dei casi, vittime di violenza domestica, che si rivolgono ai servizi di medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso dei 4 ospedali dell’Ente Ospedaliero Cantonale. Se da un punto di vista strettamente medico spesso queste persone non hanno subito delle lesioni gravi, le vere ferite sono altrove e, come illustra la toccante testimonianza, difficili da individuare. 

Fino al marzo del 2019, in base alla legge sanitaria (art. 68), questi casi erano oggetto di una segnalazione sistematica alle autorità; con la modifica della suddetta legge e la relativa sentenza del TF, indotta da un ricorso inoltrato da alcuni medici, la segnalazione può avvenire solo con il consenso esplicito della vittima. Questo presuppone che chi si prende cure di queste pazienti sia debitamente competente non solo sugli aspetti puramente medici ma sia anche in grado di accompagnare le vittime sostenendole durante tutto il percorso di cura, sul piano del sostegno morale, psicologico e in parte anche giuridico. 

Per questo motivo all’interno del Servizio di medicina d’Urgenza dell’Ente Ospedaliero è in corso un progetto di strutturazione del percorso di cura delle vittime di violenza domestica che finora ha permesso di raggiungere i seguenti obiettivi. Nel 2021, creazione, a partire da una iniziativa dell’Ospedale di Bellinzona, di un protocollo standardizzato di presa a carico delle vittime. Queste linee guida rappresentano uno strumento che permette a medici e infermiere/i di avere sistematicamente un approccio globale a ogni singolo caso. Dalla primavera del 2022 questo modello di presa a carico è stato implementato in tutti i Pronto Soccorso dell’EOC. Successivamente, a seguito di un ciclo formativo specifico, organizzato in collaborazione con la SUPSI e destinato a medici e infermiere/i, si è creato un gruppo di lavoro permanente e interprofessionale che regolarmente si ritrova con l’’obiettivo di riconoscere rapidamente i problemi critici nella gestione delle vittime, e trovare delle soluzioni condivise. A questo gruppo partecipano regolarmente anche delle operatrici attive nelle strutture di accoglienza per vittime di violenza (case delle donne), i colleghi della pediatria, un rappresentante dei medici del territorio. Durante il 2023 l’Ufficio Federale della Salute Pubblica ha ufficialmente riconosciuto il protocollo EOC come esempio di “best practice” pubblicandolo sul sito https://www.ofsp-blueprint.ch. Nell’ambito della campagna nazionale di sensibilizzazione sul tema, il gruppo dell’EOC ha anche organizzato, al Palazzo dei Congressi di Lugano, nel novembre 2023, uno spettacolo teatrale seguito da una tavola rotonda sul tema.  

Tanto è stato fatto, ma molto resta da fare in questo ambito. L’entusiasmo e il desiderio di aiutare e migliorare non mancano, a testimonianza del ruolo fondamentale che i Servizi di medicina d’urgenza ricoprono nella gestione non solo delle emergenze vitali ma anche, e soprattutto, nel supporto alle crescenti situazioni di vulnerabilità medico-sociale che caratterizzano la società attuale. 

4 pensieri su “Approccio alle vittime di violenza domestica in Pronto Soccorso

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