Di sentieri e di ritorni

Da Gerusalemme ad Atene

Le Medical Humanities, che chiamo umanesimo clinico per giungere più vicino al cuore della Cura, generano parole-guida, sentieri, radure, soglie, confini, porte, che dicono di aperture, ma anche di minacciose chiusure nei confronti della dignità e della libertà di ogni uomo e per ogni uomo. Parole-metafore, che sorgono allora come figure parlanti del camminare nell’esistenza e che ci conducono lungo la via che va da “Gerusalemme” ad “Atene”, con una sosta sulla strada che porta a “Gerico”, dove incontrare il Samaritano.

Da “Gerusalemme”, luogo della “chiamata”, del pensiero esistenziale e del mistero, che la accompagna, ad “Atene”, luogo del pensiero razionale, dell’Evidenza e della Grande Misurazione del Mondo. L’umanesimo clinico sta dentro questa rotonda e nello stesso tempo su questi sentieri tra due forme opposte del pensiero, instabilmente alla ricerca di un punto di equilibrio e di un linguaggio, che possa contenere entrambi, acrobati del pensiero tra tecnica e poesia.

Punto di partenza dell’umanesimo clinico non è infatti la teoria, ma l’esperienza di vita, che diviene ascolto, emozione, narrazione e poi storia. In questo nuovo umanesimo, che tiene in vita la Cura e impedisce il suo impoverimento, il suo decadere nel mero calcolo, alberga la “penultima parola” dell’umano, quella che dice delle soglie, dei bordi, delle corrispondenze, delle sincronicità. Una parola tra esattezza e narrazione, tra calcolo e poesia, che non potrà mai essere catturata da una sola disciplina. La disciplina della certezza scambiata come verità. Il rispetto dell’umano, dei suoi diritti, della sua cittadinanza, della sua dignità, della sua libertà si coniuga infatti nell’umanesimo clinico con l’enigma dell’umano che abita l’uomo. Un enigma che contiene il rigore della scienza e la leggerezza della poesia. È di questo incontro che è fatto l’umanesimo clinico.

Lungo la via fatta di intrecci e di incroci vi è un camminare affaticante, sempre facile all’inciampo e alla caduta, tra le cose perdute e gli orizzonti di speranza, tra nostalgie e attese. Un camminare lungo “sentieri interrotti”, sulla soglia dell’impossibile, che la vita contiene, ma anche di tutto il Possibile, che ancora respira, nei confini tra i mondi che soggiornano in noi. Un camminare all’incontro della radura, la Lichtung heideggeriana, che permette, al di là delle ombre di dolore e di angoscia, di vedere la luce. Su quei confini, su quelle soglie, su quei sentieri, che sono la vita, si odono voci a volte vicine, altre lontanissime. Sentieri, che da “Gerusalemme”, luogo della “chiamata”, dello sguardo verso l’eterno, che ci invita a dire Eccomi!, e insieme luogo della Grande Narrazione, del «regno di ciò che c’è di più prezioso», come scrive Lev Sestov, vanno verso “Atene”, città della Ragione, abitata degli agrimensori del mondo, dall’obbedienza al Metodo e ai suoi canoni, alle sue discipline, diremmo oggi ai tanti algoritmi digitalizzati, che sorvegliano, regolano e governano la vita. Su quella via vi è l’uomo in cammino, di cui questi nostri fogli volanti saranno testimoni.

L’umanesimo clinico è poesia dell’esistenza. Quando nel cielo si svela la battaglia tra le nuvole nere al giungere della tempesta e quelle tinteggiate di rosa, annuncianti il tramonto, quando i rumori divengono armonie, quando le parole svelano il loro canto, come avviene tra gli aborigeni australiani e iniziano a danzare, allora l’uomo scopre il dolore e la gioia dell’esistenza e sente più forte il bisogno di cura, di cura di Sé, di cura dell’Altro e del Mondo. È di questa Cura, che nell’esistenza risuona, e che non è mera terapia, che si fa carico l’umanesimo clinico tra pensieri, parole, scoperte e progetti di vita e di cui la nostra Rivista on-line, che si è fatta leggera dopo cinquanta numeri fatti di carta meditante, è sentinella, perché lungo è ancora il cammino.

Una giovane infermiera di un nostro ospedale è stata qualche settimana fa rimproverata dalla sua capo reparto, perché si era intrattenuta qualche minuto in più al letto del suo paziente. Lungo e tormentato, a tratti scandaloso, è ancora il cammino. Il sentiero sembra sempre inesorabilmente interrotto, lontano dalla casa di “Gerusalemme”, là dove, al di là del rigore, della misura, della pesatura, della siglatura dell’uomo, della mera evidenza, in una parola del pensiero calcolante, abita l’amore, il sentimento, la poesia dell’incontro, il logos sensibile, di cui ci parla Maria Zambrano, che svela la riserva simbolica di cui è fatta la Cura e la vita.

L’uomo è cura, è cura di Sé, è cura dell’Altro, è cura del Mondo della sua Altrovità e della sua Ovunquità. La Cura è infatti ridare vita, custodire la vita, rianimarla, anche là dove la vita sta per finire. Ma «gli occhi degli uomini—scrive Rilke—devono imparare a trasformare l’esperienza in visione, per non perdersi nulla del mondo, grazie al quale si comprende che per stupirsi, come per scegliere, la vita comincia ogni giorno». La Cura genera infatti sempre nuovi orizzonti, che non smettono di dare senso all’esistenza stessa. Ecco perché il sentiero è in sé incompiuto. La Cura nasce là dove la tormenta e l’angoscia del vivere si fa più intensa, là dove l’uomo vive la sua vertigine, il suo morire. Ma proprio là, la Cura è capace di dare una torsione al destino verso una nuova destinazione, un esilio che si trasforma in un esodo.

Di tutto ciò le pagine aeree della nostra nuova Rivista on-line, capace di soggiorni brevi, che svelano chi vi è stato prima di noi, vogliono essere fedeli compagni di strada tra oscure foreste e luminose radure, che permettono di vedere ciò che brilla nel cuore dell’umano. Vi abita la Cura e al cuore della Cura vive l’amore, l’ “ordo amoris”, come scrive Max Scheler, che riscalda il cammino dell’esistenza. L’umanesimo clinico è così come una sorta di “camera di una locanda” per l’uomo in cammino. È di questa “locanda” che si occupa questa nostra Rivista on-line, una locanda in cui dimora il bisogno di un nuovo umanesimo. Vi soggiornano parole smarrite, parole ritrovate come indicatori di azioni, di sentimenti, di pensieri. “Parole” con cui comporre il “passaporto del futuro” in grado di guidarci dentro le più diverse forme della quotidianità. “Parole” su cui si sono «intrecciati meravigliosi “tappeti” ma anche terribili “camice di forza” o tragici sudari».

Come chiamare allora quel mal d’essere e quel disagio di vivere, segno di una inconciliabilità tra l’uomo e il mondo, che ci rinvia ad una solitudine più radicale, più inesauribile della semplice mancanza di comunicazione, di amicizia e di affetti? Non basta comunicare bene con l’Altro uomo, non bastano i corsi sulla buona comunicazione, bisogna sentire la sua presenza, la sua domanda nel dolore, il suo smarrimento, la sua vertigine lungo i “sentieri interrotti” della vita. Sentire la sua solitudine senza rimedio, che rende spesso vane le nostre strategie di aiuto e di cura. Una solitudine che abita ciò che per semplicità chiamiamo malattie del corpo e dell’anima, che al di là delle loro differenze non sono che stazioni intermedie di una esperienza tragica, che a volte anticipa il soffio delle ali della morte. Come evocare, dare nome allora a coloro che nel male dell’anima sono abitati da questo radicale esilio sino alla disperazione?

Ad ogni cambiamento di statuto discorsivo e organizzativo che li riguardava anche i nomi mutavano, conquistando nuove libertà e nuove dignità, ma anche smarrendo progressivamente ciò di cui la loro memoria storica è testimone, traccia di una rottura tra l’uomo e il mondo, tra i cieli e la terra. Scriveva, come fosse un monito, Michel Foucault in uno dei suoi primi testi, «i progressi della medicina potranno far scomparire completamente la malattia mentale, come già la lebbra e la tubercolosi; ma so che una cosa sopravvivrà e cioè il rapporto tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte; che, una volta messo fuori circuito ciò che è patologico, l’oscura appartenenza dell’uomo alla follia sarà la memoria senza età di un male cancellato nella sua forma di malattia ma irriducibile come dolore». È all’ascolto di queste parole di dolore, che la “Cura ” di cui parla l’umanesimo clinico, è chiamata. Così la nostra Rivista on-line sarà testimone per quella giovane infermiera richiamata all’ordine, sentinella e insieme avanguardia di un nuovo modo di pensare al dolore, alla malattia, alla sofferenza, alla cura, come anche al lampeggiare qua e là di lapilli di felicità e di umanità.

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