Disperanti intimità

Terre di ghiaccio, terre di fuoco e terre di vento 

Spingersi all’eterno 
L’intimità è la dimora della felicità e nello stesso tempo della disperazione. Mal di vivere e gioia di vivere disegnano nei loro contrasti, nel loro apparire così diversi, a volte persino nelle loro sotterranee armonie, lo spazio della vita in cui si bagna tutta la nostra quotidianità. La tonalità emotiva, che riveste il giorno dall’alba al crepuscolo nelle sue variazioni di colore e di suoni, è lo sfondo su cui i nostri più semplici gesti, le nostre parole più domestiche si raccolgono o si disperdono scrivendo la nostra storia di vita.  

Pensiamo alla felicità che tanto desideriamo, ma di cui bene non sappiamo l’origine e le parole. Felicità è parola sfuggente come se non potesse appartenere all’uomo che per un istante. Si declina subito in euforia, in gioia, in allegrezza, in serenità ma anche in nostalgia del passato, nel dolore delle cose perdute. È una parola che commuove, che appartiene più a un suono evocativo e ad una emozione che alle sue motivazioni o alle sue parole. «I momenti di felicità – scrive T.S. Eliot – ne abbiamo avuto l’esperienza, ma ci è sfuggito il significato». Da qui i tentativi di ritrovarlo quel significato fuggito, le sue infinite definizioni, gli infiniti modi di raccontare la felicità, forse di racchiuderla per farne pietra preziosa per la vita. Essa sembra comportarsi come le fate di cui parla Jean Cocteau quando scrive: «Quand on regarde les fèes, elles disparaissent».

La felicità ha in sé lo stesso segreto di quella fate, che sono illusioni per la realtà e realtà per l’immaginario di ogni uomo.

La felicità vive come sospesa sul filo di orizzonte del tempo. Abita l’attimo e dall’attimo è abitata così pienamente da divenirne padrona, sovrana sul tempo, che sembra arrestarsi alla sua presenza. Ci offre l’illusione della assoluta pienezza, di quel “sentimento oceanico” di cui parlava Romain Rolland dialogando con Freud, di una sorta di “orgasmo d’anima” di cui fanno esperienza gli innamorati e i mistici. Se per un attimo ci fa sentire come grandiosamente unici dentro l’universo con l’oggetto d’amore e la sorgente di tanta felicità, come evocano le parole di Teresa D’Avila «l’âme doit penser comme s’il n’y avait que Dieu et elle au monde», non è però mai mera esperienza di chiusura in se stessi, è al contrario espansiva, tocca l’esperienza della luce, della apertura di sé al mondo e agli altri.  

Si può costruire la felicità? Se la gioia, la contentezza, la serenità hanno bisogno per realizzarsi di un lavoro quotidiano, come quello del contadino che semina oggi per raccogliere domani,

l’esperienza della felicità invece appartiene al miracolo di qualcosa che viene incontro a noi, di un dono che noi ci siamo solo messi in condizioni di attendere.

La felicità e l’attimo si incontrano nei cieli e ricadono come dono nella mente e nel cuore dell’uomo. Li accompagna spesso in quel viaggio breve un angelo che indica loro la via verso l’uomo. Un viaggio che incontra poi due guide terrene, quella felicità del ricordo che è anche dolore per le cose perdute e la speranza nel futuro. Se quell’incontro è stato breve non così i suoi effetti. La felicità, come le fate, trasforma e modifica tutto ciò che incontra e tocca sulla sua via, così che l’uomo e il suo mondo non saranno più comunque gli stessi dopo l’incontro.  

Ma è ancora possibile essere felici senza confondere quella felicità, che viene come “miracolo” e come dono, che è apertura a se stessi e all’Altro, con quella che solo placa la nostra fame ingozzandoci di banali oggetti di consumo e di sempre nuovi idoli? È ancora possibile in un tempo, in cui – recitando l’inizio della Prima Elegia Duinese di Rilke – l’uomo si chiede angosciosamente «Chi, s’io gridassi, mi udrebbe mai dalle sfere degli angeli? E se pur d’un tratto uno mi stringesse al suo cuore: perirei della sua più forte esistenza. Poiché del terribile il bello non è che il principio?». Un silenzio che attraversa la nostra quotidianità e che cancella o muta profondamente il senso di parole antiche e insieme radicali come speranza, guarigione, salvezza e amore. Parole che fondano l’apertura alla felicità. Parole forti e nello stesso tempo fragili, che necessitano una infinita cura, affinché non cadano in malattia. Affinché si possa alla fine, proprio a partire dalla loro fragilità, come Rilke al termine di quella straordinaria cartografia esistenziale dell’uomo del nostro tempo rappresentata dalle sue Elegie Duinesi, dire della commozione «per una cosa felice che cade», cade presso di noi nella nostra quotidianità.  

E poi a volte la disperazione 
Qualche tempo fa una giovane donna mi parlava della sua disperazione, del suo male di vivere senza vie di uscita, del mondo inospitale che incontrava ogni giorno. Le sue parole vagavano senza sosta, qua e là, come prigioniere di una cella inaccessibile, assediata da un mondo cattivo e vuoto e piena di una interiorità spenta. Una cella in cui nessun incontro era più possibile. Io me ne stavo là in ascolto di quelle parole disperate e infinitamente ripetute, impotente, quando all’improvviso udimmo uno sbattere di ali sulla finestra. Un uccello era venuto sino quasi dentro la stanza e poi era volato via. La giovane donna si volse verso quell’evento inatteso, quel rumore del mondo che veniva come a interrompere le sue parole disperate, offrendo una via, una apertura, fragile certamente, ma che riuscì in quel momento a cambiare la qualità e le possibilità del nostro incontro. Lei riconobbe quell’inattesa apertura e le sue parole cambiarono. Qualcosa di diverso tra noi era avvenuto. Si sentiva in quel “batter d’ali” l’arrivo di un “messaggero”, la brezza di una speranza, che sopraggiungeva come l’eco di un paese lontano, strano e familiare insieme, che toccava ora a noi riconoscere, accogliere, costruire.  

Che cosa è allora la speranza, come messaggera di una felicità non impossibile ma di cui sembra essersi perduta la traccia? La speranza non è l’illusione ingannatrice dei tanti miraggi della realtà, non è un dolcificante della vita amara, non è la parola grandiosa e vuota da richiamare quando passivamente aspettiamo che altri risolvano per noi gli intrighi e gli ingorghi dolorosi della vita. La speranza è per dirla con Bloch una «utopia concreta» che non crede che la realtà sia sempre solo ciò che è, ma, al contrario, a volte persino contro la realtà stessa: crede e lavora per ciò che non è ancora. La speranza non è, come a prima vista potrebbe sembrare, una questione solo del futuro, ma del presente. La quotidianità è il suo orizzonte. Non è fatta di grandi proclami ma di un risveglio della quotidianità e dei suoi piccoli eventi. È fatta di piccole utopie che poi possono anche divenire grandi utopie, come scriveva Oscar Wilde quando osservava che una «carta geografica che non registri il paese di Utopia non merita uno sguardo». È fatta di ideali che sconfiggono gli idoli deteriori di una speranza mercificata e regressiva, come quella che appare attraverso le infinite lotterie e giochi a premi, che popolano oramai quasi tutti i programmi televisivi per le famiglie, in cui la speranza diviene un sottoprodotto del mercato o della fortuna.  

La speranza, non ridotta a queste sue rappresentazioni ingannatrici, non è allora solo un balsamo necessario per vivere, ma è costantemente esposta alla delusione, all’incertezza, è in fondo anche fatica, lotta per la vita. Solo l’uomo può sperare e disperare, solo l’uomo può costruirla o distruggerla. La speranza, che a volte come in quel batter d’ali, appare come se appartenesse più al miracolo che al mondo delle previsioni razionali, non ci è però lasciata gratuitamente. Ha bisogno di “esercizi di apprendimento” che appartengono in primo luogo, ma non solo, all’educazione del giovane uomo e del cittadino. È un dono che si deve conquistare ogni giorno, perché a volte veramente inospitale è il mondo che ci circonda e altre veramente desertico o crudele è il nostro mondo interno che chiuso su di sé è divenuto incapace di ogni possibile incontro, non credendo più alla possibilità che quell’incontro possa far nascere “ciò che non è ancora”.  

Dolce è il suono che la parola speranza emana (tanto da trasformarla facilmente nel canto di una sirena), ma faticosa la sua conquista.

L’uomo di fronte a lei, che giunge là dove si è capaci di attenderla, “nel non ancora”, è chiamato a coniugare la sua libertà e la sua responsabilità a quell’aura di miracolo, senza cui il mondo non potrebbe mai divenire diverso da ciò che è e la vita capace di fare degli incontri quotidiani, il segno di una apertura, di cui la speranza è “messaggera”. Questo è anche un modo piccolo e quotidiano di guardare in volto alla vita ed essere accoglienti ad una felicità che verrà, se la terra non continuerà a rimanere così inospitale agli angeli. 

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