Fuori dal mondo, nel mondo capovolto

Terre di ghiaccio, terre di fuoco e terre di vento 

Siamo a Carnevale. È il tempo dell’eccesso, che capovolge il mondo; mette la percezione del tempo e dello spazio (così come quella del nostro corpo), divenuto troppo grande e nello stesso tempo troppo piccolo, in una vertigine emozionale. È il tempo della maschera, che ci fa essere ciò che non siamo. È il tempo di Dioniso, che scopre l’ebbrezza nascosta nelle pieghe della vita: un’ebbrezza che tracima nell’Oltre. È il tempo dell’espansione esplosiva dei sensi. È il tempo della “rumorosità” del mondo. È il tempo che risveglia le figure della notte e svela il senso più oscuro dell’oscurità. E ancora, è il tempo della passione. È il tempo di una parola, che trema al bordo del suo disfacimento nel grido e nel gesto apotropaico. E, allora, come è bello ed eccitante a volte capovolgere il mondo nel ritmo della festa, quando tutto si spegne, per tutto ricominciare. Quando, con una risata fragorosa e un irriverente sberleffo, garantiamo di nuovo la nascita al mondo, con i suoi eroi trasformati in pagliacci e i suoi pagliacci fatti per un momento re e regine.  

Il tempo del mescolamento e della confusione – in cui il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato, la gioia e la tristezza, si combinano tra loro in infinite e variopinte figure di un giorno, in quel c’era una volta di cui parlano le fiabe e i miti – era nato proprio nello scoppiare fragoroso di un rumore inatteso, che aveva spezzato l’armonia di un canto. Di quel canto con cui le pietre parlavano alle stelle, raccontando la meraviglia e lo stupore di fronte al mondo che scorreva via lento sopra di loro, scavandole, lisciandole, trasformandole e facendole rivivere nella polvere. Di quel canto con cui l’erba parlava al vento, che l’accarezzava lievemente o la travolgeva con la passione amorosa. Per generare poi il mondo degli uomini vi fu prima un brusio e all’improvviso un rumore. 

Carnevale, il tempo di una follia festosa. La festa interrompe il tempo quotidiano, lo sovverte permettendo l’avvento di un’altra temporalità sospesa tra il passato – l’infanzia che non tornerà più – e un domani non ancora avvenuto. A questo incrocio l’uomo ha vissuto da sempre l’interruzione del tempo e l’esperienza fuggevole di un tempo liberato. Il Carnevale rinnova, dopo l’attimo di buio che lo annuncia, quell’assordante rumore che spezza e obbliga a sentire e a guardare qualcosa d’altro, al di là del consueto, dell’ordine e della logica del mondo ragionevole. È l’irruzione di un vento di follia che rigenera il tempo, che sospende le differenze tra maschio e femmina, tra giovani e vecchi rimescolando le identità, che abolisce nei travestimenti le separazioni tra mondi umani, animali e vegetali. La festa ci ricorda che bisogna cancellare l’esistente per ricostruirlo e continuare ad esistere. Divenire un altro non fosse che per alcuni momenti, lasciare che le potenze normalmente imprigionate dalla ragionevolezza e tenute imbrigliate dall’ordine del giorno della vita quotidiana si facciano immagine mostruosa nelle maschere, sberleffo e disarmonia nel frastuono degli strumenti musicali, le cui note fanno finta di divenire armonia. Fa bene al mondo e fa bene all’anima dell’uomo.  

A condizione che non tutto divenga un’altra forma d’addomesticamento sociale o d’animazione da villaggio vacanze. La festa ha anche un cuore triste come i carnevali del nord ci ricordano. La rigenerazione del mondo contiene in sé anche la perdita dell’Eden e della nostra innocenza. Anche l’euforia che l’accompagna vuole cancellare a volte quel sentimento di perdita e di nostalgia. Per questo la festa è il tempo più umano che ci sia. Gli animali non la conoscono, vivono solamente nella quotidianità. Non conoscono la sua struggente malinconia da cui nascono passioni, frenesie, piccole e grandi follie su cui l’uomo ha costruito la profondità dei suoi riti, come quelli straordinari del carnevale. Ma non illudiamoci, la festa è oggi sempre più vuota. E la tristezza che l’accompagna non è più nostalgia ma arrischia di essere solo angoscia del vuoto, che torna quando le sue effimere luci si spengono senza che nulla sia veramente accaduto. Ogni festa contiene così una riattualizzazione individuale e collettiva dei misteri essenziali della vita, quelli della nascita e quelli della morte, quelli del buio e della luce, del rumore e del canto. Per questo la follia carnevalesca in quel suo capovolgere il mondo è una vera e propria cura della vita e dell’anima vagabonda che cerca incessantemente la luce.  

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