Epilessia: un segreto inconfessabile

Le persone con epilessia tendono a nascondere la loro condizione per paura di non essere accettate e di perdere il lavoro, fatto che spesso avviene quando i datori scoprono la malattia. A conferma che, a distanza di 4000 anni, l’epilessia è ancora e soprattutto una malattia sociale. 

Altre volte, preso dalla subita forza del male
Davanti ai nostri occhi, come colpito dal fulmine 
Cade, emette schiuma, geme, trema nelle membra, 
Delira, irrigidisce i nervi, si contorce, ansima 
Fiaccato da movimenti interrotti e scuotenti… 
Lentamente ritorna in sensi e riaccoglie l’anima… 
Come credere che senza il corpo…l’anima possa mantenersi in vita?  

 

Questa è una delle descrizioni più impattanti dell’epilessia, scritta dal filosofo romano Tito Lucrezio Caro (I sec A.C.) per spiegare come corpo e anima siano un tutt’uno, e la seconda si annulli quando il primo non risponde.

Ma l’anima si annulla e si nasconde anche quando la società non risponde.

È quello che succede con l’epilessia: durante le crisi, la persona si sospende e con lei l’anima. Si entra in uno stato in cui si è assenti e poi, dopo qualche minuto, si torna in sé, l’anima si illumina di nuovo, il corpo riprende a funzionare completamente, come se nulla fosse. Solo che chi assiste a tutto questo e non è pronto per accettarlo, finisce per rifiutarlo e per allontanare chi ne è vittima. 

L’epilessia è un disturbo neurologico conosciuto da più di 4000 anni e da altrettanti temuto, stigmatizzato, considerato a torto un disturbo mentale, anche se con la pazzia questa patologia non c’entra nulla. Colpisce l’1% della popolazione globale, circa 500.000 persone in Italia, di cui il 30% non risponde ai farmaci e non può, quindi, controllare le crisi. 

L’epilessia fa ancora talmente paura che le persone che ne soffrono tendono ad emarginarsi dalla società o a starci in punta di piedi. Sperando che la crisi non arrivi all’improvviso, anche se poi è praticamente sempre così. Perché il nome stesso epilessia ci racconta il suo destino: questo termine deriva dal verbo greco e′πιλαµβa′νειν (epilambanein) che significa “essere sopraffatti, colti di sorpresa”. L’epilessia non avverte quando arriva. Nelle crisi generalizzate, come assenze o crisi tonico-cloniche, l’esordio avviene in modo imprevedibile e improvviso. Nelle forme focali, alcuni pazienti possono percepire sintomi precursori, chiamati prodromi, che precedono l’inizio effettivo della crisi. Ma il passaggio dalla fase prodromica alla fase di crisi è comunque molto rapido, giusto il tempo di mettersi in sicurezza. 

E così, chi ne soffre, non dice di soffrirne.

Chi soffre di epilessia tende a non raccontare la propria condizione. Perché teme di perdere il lavoro o di non poter andare a scuola, visto che un insegnante su due non è in grado di gestire una crisi epilettica. È una storia che ha radici lontane nel tempo, uno stigma millenario di cui non ci si riesce a liberare. Un segreto di cui le persone con epilessia farebbero volentieri a meno, se non vi fossero costrette. 

 

Un po’ di storia
Per capire perché ancora oggi questa patologia causi discriminazioni, bisogna raccontarla fin dalla sua scoperta. Un “male oscuro”, un “morbo sacro”, un “male diabolico”, un concetto distorto di questa malattia che nemmeno la scienza di Ippocrate e quella di oggi sono riusciti a sradicare. Quattromila anni di fraintendimenti che non si riescono ad arginare. L’epilessia non è una malattia mentale. A descriverla in modo accurato ci ha pensato John Hughlings Jackson (1835-1911) che letteralmente la definì: «L’epilessia è il nome di scariche occasionali, improvvise, eccessive, rapide e locali di materia grigia». Ma per arrivare a questa definizione ci sono voluti secoli.  

L’epilessia viene per la prima volta riconosciuta in Mesopotamia (ed era chiamata “benu”) e attribuita alla “mano di Sin”, il dio della luna. Ecco la prima descrizione: «…se il collo ruota verso sinistra, le mani e i piedi sono contratti e gli occhi spalancati, se la saliva scola dalla sua bocca mentre è privo di coscienza…». Già a quei tempi chi soffriva di questa condizione veniva discriminato sul lavoro (più che lavoro era schiavitù): «se qualcuno compra uno schiavo maschio o femmina, ed entro un mese questo sviluppa “benu”, egli restituirà lo schiavo al venditore e riavrà i soldi che ha pagato». Anche nella Grecia classica si crede all’influsso delle fasi lunari: qui le persone con epilessia sono chiamate seleniezetai (“presi dalla Luna”). Nella versione latina la persona con epilessia diviene lunaticus. Vedete, quindi, quanto questa patologia fosse stata fin dagli esordi associata a un malessere mentale, influenzato dagli astri e dal Divino.  

Fu Ippocrate (460-379 a.C.), il padre della medicina intesa come scienza, a darci un taglio con l’aspetto divino, perché di sacro o magico l’epilessia non aveva proprio nulla. Le sue opere sono state raccolte nel “Corpus Hippocraticum”. Uno degli scritti più lunghi è, in effetti, il “Del morbo sacro” come veniva chiamata allora l’epilessia. Vi proponiamo qui un passaggio: 

«…e coloro che attribuiscono questa malattia agli dèi sembrano a me come i prestigiatori, gli impostori e i ciarlatani… questa malattia non sembra a me più divina delle altre… né meno curabile delle altre, a meno che non sia presente da lungo tempo… e divenuta più forte dei rimedi… L’origine è ereditaria, come per altre malattie… Il cervello è la sede della malattia come di qualsiasi altra malattia con manifestazioni violente…». 

Arriviamo in epoca romana: l’epilessia poteva essere “una scusa” per rinviare le elezioni. I comizi venivano infatti sospesi se durante la convocazione uno dei presenti era colto da una crisi epilettica e per questo l’epilessia fu definita “comitialis morbus” o “vitium comitiale”. L’aggettivo “comiziale” è ancora oggi usato come sinonimo di epilessia. 

Andiamo ancora avanti: Hildegarde von Bingen (1098-1179), nata nell’Assia renana, una monaca benedettina famosa per le sue visioni (aure emicraniche o crisi epilettiche?), è stata anche autrice di libri con ricette contro l’epilessia: cumino, sangue di talpa, becco di anatra femmina., zampe d’oca, fegato di animali e di uccelli. Pura magia.  

Bisogna aspettare il positivismo del XIX secolo per cominciare a osservare i fenomeni in modo più scientifico. E arriviamo alla definizione di Jackson sull’epilessia, valida ancora oggi, che abbiamo citato poc’anzi. Poi nel ventesimo secolo arrivano i primi farmaci (bromuro) e l’EEG e la storia di questa malattia cambia, così come il suo trattamento. Negli anni le tecniche diagnostiche hanno fatto progressi sostanziali, si sono introdotti nuovi farmaci. Ma se sul fronte clinico sono stati compiuti passi in avanti, sul fronte dell’accettazione da parte della società questa malattia non ha compiuto altrettanti progressi. Per questo viene spesso definita malattia sociale.  

 

Il segreto come arma di difesa
Secondo un position paper presentato da LICE (Lega Italiana Contro l’Epilessia) e Fondazione ISTUD sul rapporto tra occupazione ed epilessia, il 60% delle persone con epilessia con un’età media di 37 anni non ha un’occupazione. Il 31% è disoccupato, il resto non lavora per ragioni di età, attività domestiche o inabilità dichiarata. Quasi 1 su 2 (44%) si vede negato un impiego per rinuncia, insicurezza o esclusione. Il position paper è stato realizzato raccogliendo le testimonianze di persone che vivono con l’epilessia attraverso lo strumento della medicina narrativa che possiamo definire un pilastro delle Medical Humanities. Da questi racconti, scritti anche da caregiver e medici, emergono le difficoltà che queste persone hanno sul lavoro e il motivo per cui spesso preferiscono nascondere la loro condizione. Ve ne riportiamo qualche stralcio.  

«L’avevano accettata in uno Studio Legale vicino casa per un tirocinio. L’hanno mandata via quando ha avuto una crisi». 

«Il paziente mi ha raccontato che ha perso di nuovo un lavoro perché ha avuto uno scatto durante il turno, e il datore lavoro si è informato con la società di lavoro interinale che ha comunicato l’anamnesi del paziente». 

Ma i racconti più intensi sono quelli fatti dai pazienti stessi. 

«Ho avuto la prima crisi in ufficio. La “cosa” ha molto impressionato titolari e colleghi. Soprattutto la “bavetta alla bocca” è stata considerata incompatibile con un ambiente di lavoro che prevede l’ingresso di clienti». 

«Dopo una forte crisi nel bar davanti alla clientela, il proprietario mi ha dovuto licenziare perché non voleva spaventare di nuovo i suoi clienti e rischiare così di perderli». 

«Spiego ai miei datori di lavoro cosa potrebbe accadere. E regolarmente vengo licenziata a causa della malattia. Nonostante io dica di cosa si tratta, trovarsi davanti a una crisi è tutt’altra cosa». 

Ecco perché molte persone nascondono la loro condizione: per paura di perdere il lavoro, per timore di essere giudicati un peso.  

 

Il ruolo della medicina narrativa
Grazie a progetti come quelli di ISTUD e LICE, è stato possibile far emergere questa esigenza di dover nascondere, questo segreto che fa male a tutti, a chi lo conserva e chi poi lo scopre, perché l’epilessia scompiglia le carte e quando si manifesta, svela ogni cosa. 

Volevo parlare di questo tema per sottolinearne non solo questa urgenza sociale, ma anche per far riflettere

sull’utilizzo di strumenti, come la medicina narrativa, senza i quali queste urgenze probabilmente non emergerebbero con la giusta forza e struttura.

Rimarrebbero urla inascoltate, sfoghi personali fatti ad amici e parenti, o sui social.  

La medicina narrativa scava, fa emergere, aiuta le persone con una patologia ad aprirsi e raccontarsi, aiuta i medici e i professionisti sanitari a capire come la persona vive la sua malattia e a integrare queste informazioni nel percorso di cura, perché queste informazioni sono altrettanto fondamentali rispetto ai dati clinici di una patologia. 

Per realizzare il position paper, è stato utilizzato uno strumento tipico della medicina narrativa, il “parallel chart”, per raccogliere le narrazioni degli epilettologi riguardo ai loro pazienti. Si tratta, come suggerisce il nome, di una cartella clinica parallela in cui i medici possono registrare impressioni, emozioni e considerazioni che esulano dai freddi dati clinici, al fine di cogliere la prospettiva più ampia del paziente come persona. L’analisi dei testi ha poi utilizzato classificazioni proprie di questo approccio, come quella di Kleinman (disease/illness/sickness) e quella di Bury (contingent/moral/core narratives).  

Quella di Kleinman è forse la più conosciuta e su cui credo valga la pena riflettere. Kleinman analizza la medicina in termini di sistema culturale, osserva che ogni forma di pratica medica rappresenta un insieme di significati simbolici. Questi significati plasmano sia la nostra concezione di realtà clinica sia l’esperienza che un individuo malato attraversa. La salute, la malattia e la medicina diventano così complessi sistemi simbolici composti da valori, significati e norme comportamentali. Le interazioni reciproche tra questi elementi costituiscono, in tutte le società, sistemi di significato che organizzano e strutturano l’esperienza legata alla malattia.  

In italiano il concetto è definito da un unico termine – malattia – a cui possiamo aggiungere patologia (condizione, disturbo, sindrome) come puri sinonimi. Sono concetti che identificano la condizione da un punto di vista prettamente clinico e fisiologico, senza indagare gli aspetti sociali e personali connessi. In inglese, invece, seguendo Kleinman, esistono diverse definizioni della malattia: la disease analizza il quadro clinico e scientifico, la illness indaga la condizione dal punto di vista del percepito e vissuto del paziente, c’è poi la sickness, che è come la malattia viene percepita a livello sociale. Quando abbiamo detto che l’epilessia è oggi soprattutto una malattia sociale, stavamo definendo la sickness. Tenere in considerazione queste narrazioni non può che fare la differenza nella cura della persona con epilessia che non ha bisogno solo di farmaci anticrisi o di qualcuno che le tenga la testa quando cade durante un episodio, ma anche di una società aperta, accogliente, inclusiva, informata. Che non tema le persone con epilessia, che non le giudichi, ma sappia confrontarsi e formarsi per includerle. Una società in cui le persone non devono nascondere la propria malattia per vivere serenamente.  

Bibliografia

P. Chesi, M.G. Marini, P. Scarlata, O. Mecarelli, «ERE study project group. Epileptologists telling their experiences caring for patients with epilepsy», Seizure, Vol. 85, 2021, pp. 19-25.

F. Ciommiento, L’epilessia è stata la causa principale di licenziamento, consultato qui il 12 dicembre 2023. 

L. Cuppini, Licenziata dal bar dopo una crisi epilettica perché avrei potuto spaventare i clienti, consultato qui il 12 dicembre 2023.

R. Di Santo, Disease, Illness e Sickness: le dimensioni della malattia, consultato qui il 12 dicembre 2023. 

F. Di Todaro, Epilessia: in quali casi può essere utile la dieta chetogenica, consultato qui il 12 dicembre 2023.

Il Sole 24 Ore, Epilessia: più di un insegnante su due non saprebbe come comportarsi in caso di crisi a scuola, consultato qui il 12 dicembre 2023. 

M. Manfredi, Epilessia: come un castigo degli dèi divenne scienza, consultato qui il 12 dicembre 2023.

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