E se dovessi sceglierne solo uno, quale?

Rimanendo in cammino lungo i Sentieri del 2023 

Quando l’anno ormai volge termine, come tutte le redazioni che si rispettino, anche noi dei Sentieri nelle Medical Humanities vogliamo ri-condividere con le nostre lettrici e i nostri lettori alcuni articoli tra quelli pubblicati nel 2023. 

Buona lettura e Buon 2024!  

Martina Malacrida – Approccio alle vittime di violenza domestica in Pronto Soccorso
«Ridimensionai il sogno infantile a due obiettivi: fare sempre del mio meglio e continuare a migliorare quel “meglio”, cercando ogni giorno di imparare qualcosa in più rispetto al precedente». Parole che descrivono bene il cercare di “curare”, anche le persone, come viene raccontato nel testo, che non vogliono essere curate. Un mettersi in dubbio ogni giorno, rispetto a ogni paziente. Un mettersi in dubbio per riuscire a curare, anche solo un po’ meglio. La narrazione di un’esperienza e il suo commento: un binomio vincente per parlare di Medical Humanities e di etica clinica. La tematica è anche di strettissima attualità, il femminicidio è, infatti, la parola dell’anno 2023 per la Treccani. 

 

Michele Corengia – Accogliere, ascoltare e comunicare per curare in carcere
Scelgo l’articolo di Teresa Salamone, caposervizio della medicina penitenziaria cantonale (Ente Ospedaliero Cantonale), perché mi ha fatto incamminare lungo un sentiero da me non solo inesplorato, ma proprio dimenticato, nascosto alla mia coscienza: quello della medicina carceraria. Percorrerlo mi ha aiutato a guardare la realtà con occhi diversi, riconoscendo come spesso gli invisibili siano più prossimi di quanto si creda. L’arte medica diventa, allora, anche un’opera di svelamento per «rispondere alla domanda di aiuto che porta la persona detenuta, domanda che non sempre aspetta una risposta puramente medica, ma che implicitamente apre allo spazio relazionale anche attraverso il “semplice” ascolto». Un ascolto che si fa cura, in pieno spirito Medical Humanities, in un’istituzione complessa come quella carceraria, dove l’etica entra in tensione tra diritto alla giustizia e diritto alla salute. È questa tensione ad avermi aperto gli occhi; è questa tensione ad avermi messo in cammino. 

 

Valentina Fontana – A loro, ai folli
Ritmo ipnotico, atmosfera rarefatta, immagini soffuse, che appena emergono nella penombra del testo, e scene graffianti, che colpiscono nel profondo l’animo del lettore: sono queste le sensazioni che ho provato di fronte a A loro, ai folli, di Graziano Martignoni. Una poesia che si legge tutta d’un fiato, come si potrebbe fare con un testo in prosa; una prosa tanto densa da richiedere il tempo di riflessione del testo poetico. Un inno agli ultimi e ai dimenticati; un inno ai soli che «ci aiuteranno a ritrovare noi stessi». Un testo intenso e commovente, che si inscrive, senza dubbio, nella mia lista dei sentieri da ripercorrere. 

 

Nicolò S. Centemero – No Cure for the Father, Exorcism for the Son
Chi mi conosce sa che ho questa dannata ossessione per la letteratura. Chi mi conosce bene sa anche che mi diverto molto a seguire i vari premi letterari, sia quelli stranieri tipo il National Book Award, il Booker Prize, il Goncourt, il Pulitzer, il Nobel, sia quelli italiani, tipo il più famoso tra quelli italiani che è il premio Strega. 
A proposito di Strega, quest’anno è stato vinto da un libro che si chiama “Come d’aria”, scritto da Ada D’Adamo. Il libro è un esordio. Il libro parla di due malattie. La scrittrice è morta negli stessi mesi in cui il suo libro proseguiva l’iter di selezione nelle varie fasi del premio.
Tuttavia, per me avrebbe dovuto vincere “La traversata notturna” di Andrea Canobbio, anch’esso tra i cinque finalisti, perché, letterariamente parlando, “La traversata notturna” era il romanzo migliore – di gran lunga il migliore. E comunque, anche “La traversata notturna”, parla di malattia – o meglio, parla anche di malattia.
Per questa ragione, il mio articolo dell’anno non può che essere quello di Anne Appel Milano, splendida traduttrice dall’italiano all’inglese (Magris, Buzzati, Scurati, Saviano etc.), che ha scritto apposta per noi dei Sentieri un bellissimo pezzo – in inglese, così vi esercitate anche un po’ (proposito per il nuovo anno: leggere di più in altre lingue!) – che parla proprio de “La traversata nottuna”, citando pure alcuni estratti della sua traduzione.  
Ah, l’articolo di Appel Milano, inizia così: “When I started to think about whether and how literature relates to illness, I was not surprised to find that the theme was pervasive”. Capito?
Enjoy.  

 

Anaïs Martignoni – La famiglia: risorsa nella cura dei DCA
Ero una ragazzina alle scuole medie, S. era una ragazza minuta che fluttuava in grandi pullover oversize. Mi domandavo, guardandola con gli occhi da tredicenne, come potesse reggersi in piedi. Frequentavo sovente la biblioteca della scuola dove prendevo spesso in prestito libri e fu proprio in una di quelle occasioni che mi imbattei nel racconto di una ragazza affetta da anoressia. Fu allora che cominciai a leggere dei disturbi alimentari attraverso racconti biografici e non. Da allora, quelli che oggi vengono definiti DCA, sono un tema che mi tocca particolarmente poiché spesso, nella cultura, non si capisce la grande sofferenza, il coinvolgimento e l’impatto che questi hanno sulla vita non solo del paziente ma anche della famiglia. Di questo rapporto con la famiglia tratta l’articolo fornito da OSC. Leggendolo mi sono ricordata delle dinamiche che venivano raccontate in quel libro preso 13 anni fa nella biblioteca della mia scuola. Purtroppo, S. ha abbandonato la scuola dopo pochi mesi, presumo sia stata ricoverata e di lei non ho più saputo nulla, ma porto sempre nel cuore il suo ricordo. 

 

Graziano Martignoni – Cercare la luce. Poesia per le mie ferite e Dare e essere voce
Mi sono concesso un’eccezione e ho scelto non uno ma entrambi i testi della poetessa Stella N’Djoku da noi pubblicati nel 2023. La ragione di questa selezione è dovuta al fatto che ho sentito che le sue parole sono in grado di portare la poesia al cuore dell’umanesimo clinico, che ci guida. Appartengono al logos poetico, che accompagna il nostro “stare-al-letto” del malato. Poesia del gesto, poesia dello sguardo, poesia della parola come voce dell’anima persa e ritrovata. La Cura e la poesia condividono da sempre la stessa angoscia e la stessa fragilità di fronte al mistero dell’esistenza, così come si nutrono entrambi di un uguale stupore e di un’uguale capacità di aprirsi all’imprevisto, all’inatteso e nello stesso tempo di accogliere quel miracoloso che la fragilità della vita, a volte, nasconde in sé. Se la cura opera perlopiù nel tangibile, nel misurabile e nel visibile, la poesia abita il sensibile, quell’aesthesis in grado a volte di guarire, prima del malato, l’istituzione di cura, che lo ospita, trasformandola in un’“istituzione gentile”.   

 

Roberto Malacrida: Three Bowls
Michela Murgia è riuscita non solo a commuovermi per lo stile di questi estratti dal suo romanzo “Le tre ciotole”, ma, soprattutto, a dire in modo esemplare quel che cerchiamo di insegnare da più di vent’anni e che abbiamo tentato di praticare almeno per una trentina: essere e diventare coscienti e responsabili dei rischi della comunicazione di diagnosi e prognosi complesse e soprattutto tragiche per i pazienti e i loro cari. D’altro lato, Michela Murgia, come Thomas Mann nella “Montagna magica” o Albert Camus ne “La Peste” o, ancora, Marguerite Duras ne “La Douleur”, rappresentano al meglio due concetti che le Medical Humanities cercano di spiegare da sempre ai curanti che non li hanno ancora esistenzialmente sperimentati: cosa vuole dire essere ammalati e cos’è, in definitiva, la malattia.

 

Guenda Bernegger – A show for a selected audience
Nel suo toccante scritto, Marta Fadda, cita un dialogo tratto da A horse walks into a bar di David Grossman, tra il comico in crisi Dovaleh, che esprime sul palcoscenico la propria vulnerabilità, e il giudice in pensione Greenstein, invitato ad assistervi. Il motivo? «I want you to look at me. I want you to see me, really see me, and then afterward tell me», è la risposta di Dovaleh. «Tell you what?», chiede Avishai. «What you saw». Uno scambio in cui ritrovo la dialogicità costitutiva dell’identità narrativa, ben teorizzato da Adriana Cavarero nella sua opera Tu che mi guardi, tu che mi racconti, che ha ispirato i due contributi che ho qui proposto – Specchio, specchio delle mie brame. Il racconto come dono e Tu che mi guardi (e giudichi), tu che non mi racconti – nonché il bisogno, acuito dalla crisi, di essere riconosciuti dall’altro. Così, mi sento in sottile dialogo con Marta Fadda che, generosa di sé, ha saputo dare corpo a una questione cardine della medicina narrativa in modo intimo, incisivo e fecondo.
 

Marta Fadda – Being Aware of the Invisible
A me sta molto a cuore l’articolo di Vinurshia Sellaiah: Being Aware of the Invisible. Innanzitutto, l’articolo fornisce un’esplorazione profondamente personale e illuminante dell’impatto del pregiudizio implicito e del razzismo in un contesto professionale e educativo, offrendo una prospettiva unica dalle esperienze dell’autrice. In secondo luogo, l’articolo va oltre la narrazione personale per offrire una spiegazione chiara e accessibile dei pregiudizi impliciti, illustrando come domande apparentemente innocenti possano perpetuare stereotipi dannosi e contribuire a sentimenti di esclusione. Infine, l’articolo propone passi concreti per affrontare i pregiudizi impliciti, sia a livello individuale che istituzionale. Dall’incoraggiare conversazioni aperte sul pregiudizio all’advocacy per l’istruzione sulla sensibilità culturale, l’autrice fornisce spunti pratici che possono contribuire a promuovere un ambiente più inclusivo ed equo nei contesti professionali, educativi e sanitari. Nel complesso, l’articolo combina narrazione personale, educazione e un appello all’azione, rendendolo un contributo prezioso e incisivo al dibattito sul pregiudizio implicito nel settore sanitario e oltre. 

 

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