Tu che mi guardi (e giudichi), tu che non mi racconti

Narrare per meglio comprendere, sé e l’altro 

Quale ruolo possono svolgere le Medical Humanities e la medicina narrativa oggi? Proprio perché è indubbio che il nostro presente sia segnato dal cambiamento e dall’incertezza, può essere utile orientare lo sguardo verso la narrazione, se è vero che attraverso la messa in racconto può operarsi l’integrazione del cambiamento, delle fratture e dei traumi, nell’esistenza. Narrare – sostiene Paul Ricoeur – permette di integrare nella trama della storia (della storia in quanto “story”, cioè racconto) gli elementi eterogenei e dirompenti che intralciano il corso della storia (in quanto “history”, l’insieme degli accadimenti), consente cioè di «trasformare il caso in destino» (Ricoeur, 1990: 175): proprio di questo abbiamo bisogno in un’epoca caratterizzata della crisi, in termini sanitari dapprima, politici ed economici poi.  

Di una profonda elaborazione narrativa abbiamo bisogno ora, così come ne abbiamo avuto grande bisogno nel tempo della crisi pandemica, per integrare le esperienze e i vissuti che il Covid ha portato con sé, ma anche per passare al “dopo” facendone tesoro. La pandemia ci ha insegnato – o meglio, ricordato – che nelle situazioni di crisi prevale un pensiero binario (qui, nei termini di un prima e di un dopo, di pro-vax e anti-vax, di altruismo ed egoismo, …). Tale lettura dei fatti in chiave di opposizione, rafforzata dalle misure sociali messe in atto, si è rivelata fonte di separazione e tensioni profonde sul piano sociale.  

Sebbene la normalità si sia nuovamente imposta, dettando i suoi ritmi, e le opposizioni che hanno caratterizzato l’urgenza sanitaria abbiano lasciato il primo piano ad altre scene di conflitto, rimane necessario lavorare, nella comunicazione intersoggettiva e collettiva, su quello che può invece facilitare la convivenza – non più tanto con il virus, con una malattia che resterà verosimilmente endemica, quanto soprattutto con l’altro, portatore di una visione diversa della situazione sanitaria e delle scelte socio-politiche, a prescindere dal suo agire manifesto. Ad esempio, dietro l’epifenomeno dell’adesione o meno alla proposta vaccinale vi sono stati argomenti molto diversi, tali da avvicinare in alcuni casi soggetti con credenze e orientamenti opposti o da allontanare chi pensava di avere una visione comune. Al contempo, la tabuizzazione del tema ha portato i più a tacere rispetto a questo discorso, finendo per rinchiudere l’altro in un’immagine carica di pregiudizi e di proiezioni. 

Lo scarto tra la rappresentazione che ciascuno ha di sé e quella che gli altri hanno di lui, nonché l’immagine incompleta che i soggetti hanno degli altri, è – a prescindere dalle ragioni di ciascuna parte – fonte di incomprensione, di astio, di separazione e di un sentimento di solitudine o ingiustizia. «Tu che mi guardi (e giudichi), tu che non mi racconti», potrebbe tristemente intitolarsi un ritratto del nostro tempo, capovolgendo i termini del saggio fondativo di Adriana Cavarero sulla filosofia della narrazione (1997). 

L’approccio narrativo ha mostrato che si può rafforzare invece la comprensione altrui – di un altro, potenzialmente diverso, portatore di una diversa visione e di altri valori – grazie alla mediazione delle storie: in primo luogo, attraverso l’ascolto del punto di vista altrui; in secondo luogo, attraverso la rappresentazione, via l’immaginazione, di quello che potrebbe pensare e vivere. Le esperienze in cui (in vari contesti geografici, sociali, istituzionali) tale strumento narrativo è stato consapevolmente sperimentato hanno mostrato che l’empatia nei confronti dell’altro aumenta. Riconoscere il carattere comune di alcuni vissuti (ad esempio, nel contesto della pandemia, la paura, condivisa da chi si è schierato pro vaccino e da chi lo ha rifiutato, per quanto riferita ad oggetti diversi) permette di rafforzare il sentimento di essere parte di una stessa collettività, confrontati a sfide comuni – negli scorsi anni, quella chiamata Covid, in futuro, chissà –, da affrontare assieme, in modo solidale.  

L’esercizio delle «variazioni immaginative» (Ricoeur, 1986: 128) offerto dal racconto favorisce l’empatia e riduce il senso di opposizione, antagonismo, esclusione. Il ricorso alla letteratura consente per eccellenza, secondo Martha Nussbaum, di «mettersi al posto di persone di vario tipo e di assimilarne le esperienze», il che innesca «una fervida attività emozionale e immaginativa» (Nussbaum, 2012: 39-40). 

È proprio nel tempo che si pensa come “dopo la crisi”, che si rivela essere più che mai necessario colmare i vuoti del discorso, riparare gli errori compiuti inevitabilmente in un periodo in cui la comunicazione sanitaria ha seguito le logiche dettate dall’urgenza, dalla paura, dal bisogno di controllare, per evitare di ripeterli in futuro. È proprio nel tempo che si pensa come “dopo” – a sua volta, tempo del “prima di” una nuova crisi – che occorre osservare criticamente le pratiche comunicative e narrative messe in atto, per esplicitare quali caratteristiche retoriche abbiano segnato e sotteso i discorsi, quali soggetti abbiano dominato i testi (in posizione di autori o di referenti), e quali silenzi abbiano invece privato di voce e reso impotenti altri.  

Se il senso di passività, di perdita di presa sulla situazione, il sentimento penoso di essere in balia degli eventi e delle informazioni hanno caratterizzato nel tempo del Covid il vissuto di tutti i soggetti – pazienti, curanti, cittadini –, un lavoro sulla narrazione può permettere a ciascuno di ritrovare la propria posizione e il proprio potere, favorendone l’agentività: «En faisant le récit d’une vie dont je ne suis pas l’auteur quant à l’existence, je m’en fais le coauteur quant au sens», sostiene Ricoeur (1990: 147). Ciò può inoltre contrastare il vissuto di isolamento (morale, oltre che spaziale) che ha accompagnato la tensione e la frattura sociale – che con il superamento dell’urgenza sanitaria sono passate sullo sfondo, senza essere forse veramente elaborate –, componendo le posizioni divergenti in un discorso nuovo e corale.  

Anche la comunicazione in sanità e sulla sanità dopo il tempo del Covid dovrebbe cogliere l’occasione per rendere conto a posteriori delle scelte fatte, degli errori (anche senza conseguenze) e dei colpi di fortuna (forse apparsi come meriti), per dare voce ex post pure a chi non si è sentito rappresentato. Come tutte le occasioni, anche questa può però beninteso essere mancata. E forse ciò sarebbe addirittura da molti auspicato: per andare avanti, la via dell’oblio è spesso la più facile. Eppure, sarebbe peccato non darsi la pena di una riflessione critica sui meccanismi comunicativi e narrativi che hanno contribuito a intensificare la sofferenza degli individui e a fragilizzare la coesione sociale, proprio in tempo di crisi, quando tale coesione è particolarmente necessaria. 

L’esercizio narrativo che comporta l’evocazione dei «possibili nascosti nel passato» (Ricoeur, 1985: 278) è allora un gesto che ha una valenza anche etica: apre all’ascolto di più voci e di più trame, al pluralismo, e aiuta a riconoscere che altre letture, altri racconti, sono sempre possibili (Bernegger, 2016 e 2022). 

Bibliografia

Bernegger, «Racconti possibili. Mille e una storia» e «Sull’utilità e il danno delle storie per la vita», in La medicina narrativa e le buone pratiche nei luoghi della cura. Metodologie, Strumenti, Linguaggi, a cura di F. Marone, Pensa MultiMedia, Lecce, 2016, pp. 23-44 e pp. 193-218.

Bernegger, «Narrare per comprendersi», in La comunicazione medico-paziente e sanitaria, la medicina narrativa dopo il tempo del Covid, a cura di M. A. Bertozzi e M. Bossi, Atti del convegno tenutosi a Milano il 30 settembre 2022, Eta Beta, 2022, pp. 73-77, testo che il presente contributo riprende ampiamente.

Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano, 1997. 

Nussbaum, Giustizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, Mimesis, Milano, 2012, pp. 39-40.

Ricoeur, Temps et récit iii, Seuil, Paris, 1985, p. 278 (trad. nostra).

Ricoeur, Du texte à l’action, Seuil, Paris, 1986, p. 128 (trad. nostra).

Ricoeur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris, 1990, p. 147 e p. 175 (trad. nostra).

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