Il cielo del pastore della meraviglia

Terre di ghiaccio, terre di fuoco e terre di vento 

Il presepe o presepio sin dalla sua origine (Francesco d’Assisi, 1223 a Greccio) è scenario e palcoscenico della Natività e nello stesso tempo racconto di mondi. Vi sono i pastori con le loro greggi, che si avvicinano alla grotta, dotati del bastone del lavoro, con lo sguardo rivolto alla terra su cui camminano, trovandone la sua sacralità. Vi è poi anche un altro pastore, con lo sguardo attonito verso il cielo, illuminato solo da una lanterna. Sembra non guardare la terra su cui pone i suoi passi, ma l’infinito del cielo, che lo attrae e lo interroga e lo espone allo stupore, come se prendesse, su di sé e dentro di sé nel suo corpo, il buio e la luce delle sfere celesti. Sembra ascoltare il canto degli Angeli, che lo chiamano.  

È il pastore della meraviglia, colui che svela il mistero dell’incontro tra la luce e il buio. Natale li contiene entrambi. Il Natale, festa della natività, ha certamente bisogno di entrambi perché il miracolo accada. Il Natale è mettersi in cammino, guidati, come dice papa Francesco, dal principe della pace. Il Natale ha bisogno di una casa, una casa, che cerca e desidera, ma anche del cielo, che copre come un manto dorato le porte dell’eterno. Ma non basta la casa, c’è anche la mirabilia, che l’uomo fattosi viandante e pellegrino, attende. Attende che qualcosa accada, una mirabilia, che le stelle generano, accolgono e incantano. Il cielo e la terra si incontrano nella notte di Natale, che è notte del mistero della nascita e per dirla con Hannah Arendt dell’uomo che nasce. 

«Gli uomini, anche se devono morire, sono nati non per morire ma per incominciare» (Arendt, 2012, p. 182). 

L’uomo cerca una dimora, guardando la terra e ammirando il cielo, ove collocare il veloce “tempo della vita”.

Un tempo, che nella magia di questi giorni, guardati con gli occhi sgranati dei bambini, a volte persino si arresta. La casa e il cielo parlano con la voce della poesia, parlano d’amore e di cura. Cura di sé, dell’Altro e del Mondo. La casa e cielo divengono testimoni della nostra intimità, scrigno dei nostri segreti, delle nostre speranze d’amore, ma anche delle nostre ferite. Aperture dell’infinito.  

Tra le mura della casa e i venti del cielo, divenute vieppiù fragili e permeabili, possiamo trovare e ritrovare la tenerezza dell’infanzia e delle sue magie, ma anche i dolori, le sofferenze e i conflitti che appartengono alla vita, come se tenerezze accoglienti, passioni d’amore e brucianti battaglie, si arrotolassero in un gomitolo d’esistenza, da cui tracima a volte dolce nostalgia ma altre amarezza e rabbia. Il pensiero della casa e l’attrazione del cielo e dei cieli, che il pastore della meraviglia sembra cogliere sin dentro il suo corpo, genera luce, che si fa storia.

E la storia si fa ricordo, desiderio di ritrovare una nostra stella d’Oriente, che spesso la vita adulta ci ha fatto smarrire, di riandare alla sorgente della nostra stessa vita.

Il tempo della musica della terra e del cielo svela il battito dell’infinito, è porta dell’eterno. Per essere compreso ha bisogno del rito, che ha in sé la forza simbolica della ripetizione. Si ripetono i gesti, le parole, le atmosfere, che per ognuno di noi sono come un “cannocchiale capovolto” capace di ritrovare e fermare dentro i fotogrammi della nostra vita già trascorsa.  

Tutto ciò quando l’anima di una casa e di una famiglia continua, pur tra le mille difficoltà della vita, a funzionare, come quel vecchio organetto, dimenticato nello scaffale degli affanni quotidiani per tutto l’anno, e che ora, riportato in scena, rinnova l’antica magia. Una magia che appartiene alla familiare intimità dei tanti oggetti che contornano il Natale ma anche alle sue luci pubbliche, che ne fabbricano l’atmosfera. Quando tutto ciò si spegne è il territorio del banale che vince la battaglia e ruba l’anima. Un Natale allora divenuto di cartapesta.  

Il Natale è un incontro tra nostalgia e passione per la vita che sta per rigenerarsi, per nascere. Senza questa esperienza tutto si sfarinerà nelle mani dell’uomo smemorato. Il Natale è un vero e proprio custode della memoria. Questa custodia ha però bisogno di un’attenzione alla temporalità della vita, che la banalità spezza, ferisce, deturpa e che può ritrovare il suo respiro proprio nel rito. Due fiumi d’esistenza vi confluiscono, quello delle generazioni che si susseguono e quello dell’intimità. Giovani e vecchi, genitori e figli vi si specchiano, ritrovando, negli occhi incantati dei figli, il bambino che sono stati e che continua ad abitare dentro di loro, riascoltando a volte persino la voce di chi da tempo se ne è andato.

Chi non rivive a Natale, nel buon o nel cattivo ricordo, i tanti Natali della propria infanzia?

Vero proprio “teatro delle generazioni”, il Natale è anche “teatro dell’intimità”. Un’intimità fatta di complicità, di patti segreti, di racconti condivisi, di doni ricevuti e offerti. Tutto ciò a Natale diviene festa. Una festa che parla di un ritorno a “casa”, come se l’esilio che sentiamo nella vita quotidiana si fosse per un attimo annullato. Vicinanza e lontananza, come fosse musica, che canta il mistero dell’inizio e della fine, incessantemente. La custodia della memoria, del suo ritmo, della sua musicalità possono forse farla rivivere dentro di noi come una vera e propria cura della vita, apertura alla mirabilia, che quel pastore riusciva a vedere e luogo della riconciliazione con il mondo e la vita stessa. 

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