Invisibili malattie

Terre di ghiaccio, terre di fuoco e terre di vento 

Il mondo cambia velocemente persino più veloce di come riusciamo a pensarlo e a sentirlo. Il trasloco verso un nuovo mondo è già da tempo iniziato, tanto da farci vivere oramai da anni in quello stato di precarietà in cui si vive prima di una partenza (quando i bagagli sono oramai pronti e ci si affanna agli ultimi controlli sapendo di dimenticare comunque qualcosa e di dovere altresì rinunciare a tutto ciò che di superfluo non sta nelle nostre già voluminose valige). In quel trambusto, a volte l’attesa della partenza prende il posto delle necessità del quotidiano e la nostalgia comincia ad alimentare i racconti serali a giovani che non hanno più molto interesse a quello che noi abbiamo vissuto.  

Siamo in un tempo in cui la memoria è un bene a grande e veloce deperimento e il futuro non è che un presente vissuto sul corpo e nelle emozioni forti del momento prima ancora che nel paesaggio interiore. Malattie della memoria, malattie dell’assenza, malattie del vuoto di senso. Vi sono invisibili malattie che si nascondono nella quotidianità tanto da divenire loro stesse parte della quotidianità. Ogni epoca ha avuto le proprie, ma più di un segnale dice che oggi questa contaminazione nel cuore stesso di ciò che chiamiamo normalità è divenuta invisibile. Svelarla sulla linea di orizzonte di questa quotidianità è come seguire indizi, sintomi attraverso le ovvietà, le banalità, insomma tutto ciò che ci pare appartenente oramai allo stato delle cose. Cercare e costruire una sorta di cartella clinica, che parli dell’esistenza malata per scoprire indizi, sintomi del vivere quotidiano.  

Prendiamo un primo esempio. Un esempio certamente abusato ma di cui desidero mettere in rilievo almeno un aspetto. Penso al rapporto tra infanzia e televisione: l’elettrodomestico capace di rubarci l’anima o di offrirci una possibilità di crescita e di conoscenza in più? Un dilemma di difficile soluzione anche perché quell’elettrodomestico non è una cosa sola, ma una macchina parlante capace di molte funzioni, di molti interventi sulla nostra mente e sul nostro comportamento. Mi sembra, infatti, che questi temi non esauriscono una zona di ombra, una sorta di malattia invisibile contaminante che agisce nel sottosuolo della nostra stessa possibilità di difesa critica.  

Se prendiamo per esempio il problema della violenza e il suo influsso sui bambini possiamo dire immediatamente che, sebbene a volte preoccupante, i suoi effetti rimangono quantitativamente limitati per una serie di ragioni. Da una parte sono effetti facilmente riconoscibili come aberrazioni con cui non si ha nulla in comune, dall’altra perché il mondo immaginario dei bambini è già un mondo di violenza, che contiene normalmente i suoi antidoti, la sua capacità di trasformare questa violenza e questa aggressività naturale in possibilità evolutive attraverso i racconti (dalle fiabe alle forme certamente più inquietanti per la loro anaffettività relazionale dei film televisivi) e poi ancora perché bisogna avere delle precondizioni di personalità o ambientali perché il mondo psichico dei bambini esploda in comportamenti violenti sotto la spinta dell’imitazione televisiva. Temi di cui molto, e a ragione, si discute, come accaduto in un dialogo tra Rita Montalcini e Edgar Morin, soprattutto quando si riflette criticamente: sugli effetti della violenza che spesso in modo sconsiderato mette in scena; sulla quantità di tempo di esposizione al video da parte dei bambini quando già sono stanchi e, quindi, particolarmente permeabili a quella che è stata chiamata la video-ipnosi; sul loro abbandono da parte di genitori indaffarati alle seduzioni quasi ipnotiche della magia di suoni e di immagini che la televisione riesce a produrre.  

Tutto ciò dimentica ancora una volta quello che per me è l’effetto più subdolo dell’esposizione della infanzia alla televisione. Una dimenticanza che appartiene a pieno titolo alla malattia invisibile di cui voglio parlare: quella del silenzioso, continuo, ipnotico suggerimento di “nuovi bisogni” da soddisfare e dunque della costituzione di un bambino già avido consumatore. Il veicolo di questa espropriazione quasi normale dell’infanzia e di questa sotterranea violenza sull’infanzia non sono tanto i cartoons o l’abbuffata di telefilm, ma la pubblicità che con insistenza e con raffinata tecnica (dall’aumento del volume dell’audio, alla sua capacità di seduzione artificiale) si intercala tra le fasce dei programmi per l’infanzia, creando di continuo il bisogno di nuovi oggetti di consumo. Questa mi pare la malattia più pericolosa annidata nel rapporto tra bambini e video, più pericolosa perché più normale, meno sospetta poiché quell’uomo avido consumatore e distruttore di oggetti di consumo non è altro che la piccola copia di quello che l’adulto è divenuto: un normale consumatore. Una critica questa all’apprendimento precoce al consumo che non si fonda, come potrebbe apparire a prima vista, su considerazioni moralistiche e anticonsumistiche ma su considerazioni che fanno riferimento a temi legati all’evoluzione psicologica del bambino.  

Che cosa sono dunque i neo-bisogni che la pubblicità televisiva appositamente confezionata per l’infanzia produce, quali le loro funzioni sullo sviluppo mentale e affettivo dei nostri figli? Questa è la questione fondamentale che la normalità dell’uomo consumatore nasconde. I nuovi bisogni, per dirla brevemente, lavorano su due livelli decisivi. Quello della stima di sé e quella del rapporto con il dolore della mancanza. Come ben si vede due momenti decisivi per lo sviluppo della personalità. La civilizzazione dei consumi, di cui la televisione è oramai il portavoce più potente, ha trasformato la “stima di sé” materializzandola e legandola strettamente alla visibilità sociale (anche dentro la società dei bambini), al possesso degli oggetti, garanti del successo, alla possibilità o meno di essere accettato dal gruppo sociale a cui si vuole appartenere. La stima di sé che passa attraverso gli oggetti di consumo diviene allora sinonimo di sicurezza, di identità costruita allora sulla merce. Un secondo livello è quello della regolazione del dolore rispetto all’oscillazione tra presenza e assenza di cui ogni bambino per crescere deve fare esperienza. Il neo-bisogno diviene allora qui una sorta di anestetico che riempie ogni mancanza, ogni buco, ogni possibilità di soffrire per poi elaborare mentalmente quella sofferenza. Il neo-bisogno tende allora a riprodursi compulsivamente perché avido e veloce è il suo consumo, così come immediata la sua caduta di interesse e di capacità anestetica.  

I rischi evolutivi di questa progressivo impoverimento della mente sono allora grandi almeno quanto grande è l’assuefazione da parte di tutti a questo silenzioso e dolciastro veleno. La “malattia” video-ipnotica per i nostri figli (ma non solo per loro) non sta dunque solo nella violenza televisiva e massmediale, ma piuttosto nella sua capacità “normale sin troppo normale” di trasformarli precocemente in onnivori e insaziabili piccoli consumatori. 

5 pensieri su “Invisibili malattie

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