La scrittura come forma di compassione

Prendersi cura del morire 

Ho dovuto risolvere molto di me, prima di poter iniziare a pensare e a scrivere. Ho iniziato a pensare storie per sfuggire ai litigi, correndo in un mondo in cui io esistevo, nonostante la mia invisibilità. Ho scritto, poi, per salvarmi dalle difficoltà; come se la scrittura potesse essere un antidoto alle sfide della vita. Sovrastato dalla marea della realtà, tenevo il timone dell’esistenza grazie alle parole. Ciò mi garantiva di tornare in controllo, di resistere in mezzo alle alte onde. 

Ora comprendo questo di me: la tensione tra perdere e mantenere il controllo, che fonda la mia esistenza, l’esistenza di tutti. Quando il mare si ingrossava, la perdita di controllo mi spingeva alla scrittura, il linguaggio mi possedeva e mi dava vita. Quando il mare era calmo e facile era tenere il timone, le parole si nascondevano da me, come se non volessero disturbarmi nella quiete.  

Allora, capisco. Capisco la difficoltà a scrivere: scrivere significa lasciarsi andare, perdere il controllo, spingersi sulla soglia tra annichilimento e sopravvivenza. Per scrivere devo smettere di esistere, per far nascere l’opera d’arte: il mio io si annulla, si suicida, per dar vita a mondi. Quando la tempesta è vicina, questi mondi sono porti di salvezza e l’annichilimento del proprio io è fonte di piacevole anestetico; ma quando il sole bagna i rami della mia barca, allora lo scrivere è un chiamare la morte quando non si vuole morire, quando si vuole tenere viva l’esperienza e non seppellirla in parole che saranno per sempre, a discapito del mio essere che non sarà più. 

Quando da bambino si urlava in famiglia, le mie storie erano mura che tenevano fuori gli invasori. Mi trasportavano in un altro mondo, dove esistevo, uccidendomi in quel mondo dove, invece, non volevo essere. Morivo al momento giusto, per divenire ciò che ero. Così è stato anche negli ultimi anni, con le varie morti che ho generato per essere. Tra tutta questa cenere ho scovato ancora la scrittura ad aspettarmi, ancora di salvezza nel mare tempestoso.  

Ecco allora che capisco: devo imparare a morire, a perdere il controllo, per scrivere anche quando il sole brilla là fuori; ed è ciò che sto facendo ora. Ho compreso che poeticamente devo, voglio, abitare il mondo; non perché sia una mia scelta, no, bensì perché la scrittura e il linguaggio mi possiedono e se non scrivo, saranno i pensieri a solcare la mia mente, in un turbinio che mi fa pensare di essere vivo, quando in realtà il morire è inevitabile. Si può, al massimo, scegliere come morire ogni giorno.  

Come voglio morire ogni giorno? Confuso ed estraniato dalla vita, perso nei miei pensieri, per fantasticare di essere vivo oppure leggero e radicato nell’esistere, non avendo paura di morire, di annichilire la mia esperienza di vita? 

Vedo chiaramente davanti e dietro di me due forze: l’una mi sovrasta e mi silenzia, l’altra mi offre il controllo e una pseudo-verità. Nella prima le emozioni mi lacerano, non voglio farle morire; nella seconda la ragione mi offre modelli di vite inautentiche, poiché non mie. Penso pensieri non miei, scrivo parole di altri. Posso esistere sulla soglia, urlando parole mie e solo mie?  

Ho dovuto imparare a farlo, morendo, abitando poeticamente il mondo. Scrivere è un modo d’essere, ho letto in un libro, ma non è un modo che io posso scegliere; esso mi ha scelto già tempo fa. Io mi sono solo nascosto, per molto tempo, impaurito perché ignorante, di un altro modo di vivere. È come se avessi dovuto imparare di nuovo a camminare, questa volta senza la mano di mio nonno a sorreggermi o la sua di camminata come modello. Abitare poeticamente il mondo non significa solamente scrivere due parole ogni tanto, è un modo di essere, di esistere, di guardare alla relazione io-mondo.  

In questo modo non si ha il controllo, si soggiace al potere della scrittura; essa è arma e carnefice. Aprirsi a questo modo d’essere significa perdere il controllo, rassicurante vita del si, per avventurarsi solitari lungo cammini inesplorati. Se si è soli, non si può nemmeno sapere di essere vivi o morti, ma poco conta. Vivere e morire corrono lungo una soglia, un bagliore di eternità, che rifiuto, per il piacere di un istante, su cui potrei scrivere per tutta la vita o per tutta la mia morte.  

Non posso essere altro da ciò che sono, ma questa consapevolezza non è una conquista, è solo un miraggio, un inganno. Il mio essere diviene continuamente e solo lo scrivere può accarezzare questa fragilità esistenziale, questa folle corsa sul lago ghiacciato dell’esistenza. È la scrittura a farmi essere, ciò che sono; è sempre stato così. 

Io sono io e sono stato io solo per mio nonno e per la scrittura, due tempi in cui non ero per altro, ma solo per me, in cui creavo mondi per esistere veramente, facendo morire inautentiche vite, in cui usavo la voce, i pensieri, le parole di altri.  

Perché la scrittura e non altro? Questo è un mistero. Mi sono semplicemente ritrovato lì, gettato nel mare con quell’ancora a disposizione. Ma forse la risposta risiede nello scrivere di mio papà, nel leggere e scrivere di mia mamma. Forse scrivere è un modo di parlare con loro, con lui; per essere un io al timone con la tempesta che impervia forte fuori da queste mura. 

Oppure perché scrivendo non ero solo, non ero più solo, dopo tanto tempo a dover essere altro per paura di non essere amato, la scrittura era il mio atto d’amore per me stesso, come se un dio avesse voluto mandarmi un angelo gemello a proteggermi e a volermi bene.  

Nelle storie stavo in compagnia, al calar del giorno. Indossavo vestiti che mi facevano vedere, strappato dalla mia invisibilità. I miei personaggi erano una dichiarazione di vita, di fronte al mio annichilimento. Io salvavo loro dal non essere, loro ricambiavano portandomi via da quel mondo che non comprendevo. Non potevo essere altrimenti, era il destino, era la scrittura a creare tutto questo. 

Chi ha scritto queste parole? Io o le parole stesse? Se non ci credo, perché le ho scritte? Se si sono scritte, perché non mi credono? Forse perché per credere ci vuole una verità, ma qui si è oltre essa. Rileggo il testo e vedo arcobaleni, come se un prisma li avesse creati. È il mio testo, sono io. Vero o meno, poco importa. Esistente sì, quello è fondamentale; perché per scrivere sono dovuto morire, anche solo per un attimo. Ho lasciato spazio alle parole o loro a me, ma è poi così importante? L’incontro con la vita ha generato la nostra morte, la mia e quella delle parole, per essere fuori dal tempo, non più essere ma solo ricordi o tracce di ciò che già non sono più. 

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