Lettera al mio orecchio

Un’introspezione terapeutica sulla soglia tra malattia ed esistenza

Caro orecchio mio,

Dove sei finito? Sono quattro mesi che non ti fai sentire. Mi hai lasciato solo in questo silenzio, a cui non riesco ad attribuire un senso. Resta in ascolto, mi hai detto. Ma di cosa? Mi hanno detto così tante cose: che non tornerai più, che ti sei spento una sera come le altre senza un apparente motivo, che gli sforzi per farti tornare sono stati vani. Non tornerai più ed io fatico ad accettarlo.

Per i medici tu sei solo un orecchio. Anche per me lo eri. Non prestavo più di tanto attenzione a te. Ogni tanto ti pulivo, ma non mi ero mai chiesto cosa custodissi al tuo interno. Coclea era una parola a me sconosciuta. Non ti riconoscevo; è forse per questo che sei scappato? Non hai più accettato l’ignorante solitudine a cui ti condannavo?

Per molte settimane ho fatto di tutto per preparare il tuo ritorno: cortisone, camera iperbarica, sessioni energetiche e preghiere. Volevo il tuo ritorno ma, al contempo, speravo che non convincessi anche l’altro orecchio ad andarsene. Avevo paura di rimanere sordo. È forse per questo che non sei tornato? Perché, anche nel dramma della tua assenza, non ti ho dato la giusta importanza?

Te lo dico ora, che non ci sei più: sei importante per me e ti ho amato senza saperlo, sordo alla perfezione generata dalla tua presenza. Mi manchi. Ogni volta che cammino per strada, ogni volta che ascolto una canzone, ogni volta che qualcuno mi parla, sento la tua mancanza, il tuo non esserci più, il tuo abbandono. È come se ogni volta si rinnovasse lo strappo e il fischio di quella notte.

Per i medici questa condizione si chiama anacusia improvvisa, causata da neurite cocleo vestibolare. Per me, invece, questa condizione si chiama solitudine esistenziale. Il tuo addio mi ha lasciato solo, in una radura in cui tento di rimanere in ascolto di non so cosa. Era questo che volevi dirmi? Sei solo? Oppure, non sei solo? O che cosa? Io rimango in ascolto, ma non posso sentire, se non la tua assenza.

Le persone pensano che il tuo addio equivalga ad una disabilità con il relativo trauma associato, da elaborare. Ma il problema non è questo. La mia sofferenza nasce dalla solitudine, che il tuo scomparire ricorda. Non so dove sei, ma so che sei solo, così come lo sono io in questa condizione. Ed è forse questo il dramma della disabilità, per chi percepisce il dolore della solitudine esistenziale. Sei testimonianza di questo scarto dell’esistenza, che mi rende unico ma, al contempo, solo e incomprensibile. Proprio come lo sei tu ora, chissà dove.

I medici hanno cercato di richiamarti all’ordine, con un po’ di cortisone e di ossigeno. Ma al loro, al nostro, richiamo, tu non hai risposto. Perché? Forse perché non ti abbiamo chiamato nel modo giusto? Forse perché né il cortisone né l’ossigeno erano l’abbraccio di cui sei andato alla ricerca? Se fosse questo il motivo, allora ti capisco. Hai fatto bene a partire per questo lungo viaggio e a non tornare ancora. Sì, perché l’unica risposta possibile alla solitudine esistenziale sta in un abbraccio, così semplice ma così difficile da ricordare: la presenza piena di un semplice contorno che ti sorregge tra gli alti e bassi della vita. Non ci sono parole o pensieri che possano sostituirlo.

Per capirlo ci ho messo trent’anni della mia vita e tu l’hai capito prima di me. Sei andato alla ricerca di ciò che mi manca fin da quando ero piccolo, chiuso in camere urlanti. Come hai potuto capirlo prima di me, prima della mia mente così dichiaratamente e presuntuosamente riflessiva? Forse l’hai intuito grazie a quella canzone di Roberto Vecchioni, che tanto ti piaceva ascoltare.

Portami via
Se ho freddo coprimi
Portami via
Se torno stringimi

Stringimi forte stasera
Tu sei primavera
Io sono l’inverno
Stringimi stringimi ora
Perché ho seri dubbi
Di essere eterno

Stringimi stringimi ora
Perché ho seri dubbi
Di essere eterno

Caro orecchio, te lo prometto. Se torni, ti stringerò forte. Ho capito anch’io, adesso, l’importanza di un abbraccio quando si trema per il freddo del morire. Mi dispiace non averlo compreso prima e averti lasciato solo nell’intemperie dell’esistenza. Torna e ti abbraccerò. Torna e ti ascolterò. Torna e ti amerò.

Ma se tu non dovessi tornare, se sei ormai troppo lontano nel tuo viaggio, allora, ti prego, non dimenticarti di me e ovunque tu sia lanciami un segnale, io sono in ascolto e in attesa. Pronto, per essere portato via in un abbraccio.

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