Qoelet

Una serie lungo la soglia della morte 

Questo articolo fa parte di una serie. Il contributo precedente è consultabile qui. 

Per ritornare all’angoscia della caducità ed alla sua curabilità, prendo spunto dalla lettura del Qoelet ed al suo ritornello «Vanità delle vanità, tutto è vanità». Questo classico scritto risale ad oltre duemila anni fa ed esprime tutta la desolazione dell’essere umano confrontato con la sua inesorabile fine, per cui ogni cosa perde valore e si rivela vana.  

Lo scritto di Searles sul rapporto dello schizofrenico con la morte cerca di evidenziare il ruolo patogenetico che il terrore della morte svolge nello sviluppo della sintomatologia schizofrenica; quindi, come esso opera sul versante dell’angoscia panica che lo psicotico non riesce a controllare, fino al punto di ricorrere a massicci meccanismi di difesa del tipo del diniego della realtà della morte e la costruzione di un delirio onnipotente di immortalità che lo protegga dallo stesso panico. Questa evidenza clinica non è stata prima di Searles seriamente illustrata, probabilmente, ripeto, a causa delle angosce degli stessi analisti di fronte alla morte. Quello che mi sembra di potere dire è che

l’angoscia panica di fronte alla morte fisica può indurre una sorta di ottundimento che possiamo chiamare morte psichica, in certi casi radicale,

per esempio nell’autismo o nella catatonia, in altri casi spettacolare ma non totale come avviene in tutte le psicosi e nella schizofrenia in particolare, in altri ancora sotto forma di delirio di persecuzione come nella paranoia quando il malato teme di essere ucciso, ed in altri ancora, come nella nevrosi e nella cosiddetta normalità, attraverso l’uso di difese “a guado” tra il diniego e la rimozione, attraverso cioè un disinvestimento più discreto e selettivo della realtà, con  conseguenze tuttavia non meno esiziali sia sul piano personale che su quello sociale. Di questo disinvestimento “nevrotico” della realtà Freud si è occupato in modo acutissimo nello scritto La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi, come pure più in generale in Nevrosi e psicosi. Fermo restando il contributo dei fattori costituzionali, vale a dire genetici e biologici in generale.  

Torniamo al Qoelet. L’autore di questo testo così profondamente poetico e filosofico esprime dunque tutta la sua desolazione di fronte alla propria e universale caducità, che in nessun modo cerca di nascondersi. Aspetto fondamentale. Possiamo pensare che questa sia la sola possibile reazione di fronte a tale durissima realtà, una reazione che si sarebbe tentati di descrivere come depressiva in termini psichiatrici? Ovviamente no, perlomeno a mio parere, ma quali altri possibili reazioni possiamo immaginare, oltre a quelle fin qui descritte? Il testo del Qoelet per esempio ne considera una, quella di dedicarsi a tutti i piaceri possibili, fintantoché ciò è consentito. Chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza, anzi il domani in senso assoluto è rappresentato dalla morte.   

Va notato che chi si occupa di grande sofferenza emotiva, gli psichiatri e gli psicoterapeuti, sono continuamente confrontati con le due grandi reazioni di fronte alla prospettiva ineludibile della fine, il diniego e la resa, accanto ad una terza categoria di professionisti che è quella dei medici, di cui abbiamo in parte parlato. Ma vorrei osservare che in ambito psichiatrico il confronto è quello con lo schizofrenico che si ammala per sottrarsi all’angoscia della morte, il diniego radicale, e con il melanconico per il quale la vita non vale la pena di essere vissuta a causa della perdita dell’oggetto e della propria colpa relativa all’oggetto perduto, la resa.  Dunque,

se da un lato c’è il diniego della morte, dall’altro c’è la resa alla morte che addirittura viene cercata, in una disperata immersione in una pura coltura di pulsioni di morte,

come dice appunto Freud. Quanto è possibile sviluppare una empatica identificazione con queste due condizioni emotive per il professionista curante, per quanto tale identificazione sia parziale e funzionale? Ed è addirittura indispensabile rendersi disponibile a tale identificazione, definendone la misura e i modi, se indispensabile è?  

Tale problematica, che si riflette nelle vicissitudini preziosissime del controtransfert, è al centro dei caratteri dell’identità del curante e quindi del suo percorso formativo, che Freud valutò sempre precario e mai definitivo, come si legge nel già citato Analisi terminabile e Analisi interminabile. In poche parole, si potrebbe pensare che sia sempre minacciosamente pendente il rischio di un deficit di identificazione col paziente psicotico e/o depresso nel curante, e che piuttosto quest’ultimo ricorra a meccanismi di difesa di proiezione e di scissione, di diniego e di disidentificazione per proteggersi dalla propria angoscia di fronte al paziente grave, angoscia di disintegrazione e di annientamento, che riproducono le angosce della propria fine.  

Un po’ come avevo osservato per il medico che inconsciamente tende a curare la morte piuttosto che la malattia o eventualmente il morire, anche lo psichiatra/psicoterapeuta tende a rifiutare inconsciamente la malattia psichiatrica con cui non vuole o non può neppure parzialmente identificarsi?

Va da sé che tali difficoltà possono forse essere in parte superate se il curante, medico, psichiatra, psicoterapeuta ha potuto elaborare un suo rapporto con la morte e la malattia organica e/o psichiatrica che lo protegga dalla disperazione, e gli consenta di identificarsi con il paziente, per quanto necessario, senza essere sconvolto e travolto da questa identificazione. Insomma, è possibile porsi di fronte alla realtà del morire con mezzi adeguati, è possibile il Si vis vitam para mortem di Freud, o addirittura è necessario, salvo fallire nel proprio più profondo compito curativo, dopo avere fallito anche quello più universalmente umano?   

Possiamo vedere in alcune tendenze della scienza moderna, della medicina e della psichiatria, in particolare, il rischio di una sconnessione con la nostra più autentica e determinata umanità? Per esempio, siamo sempre consapevoli e capaci di ricorrere allo psicofarmaco proprio in funzione di restituire o perlomeno di favorire quel minimo di umanità e di dignità del paziente che lo possa mettere nelle condizioni di potere affrontare le sue sofferenze, naturalmente con l’aiuto di una persona che non teme di stargli vicino anche nel confronto con le più specifiche e caratteristiche ansietà che chiamiamo psicosi? E vorrei ricordare che un processo del tutto analogo avviene nel trattamento delle nevrosi, per quanto il potenziale di emancipazione del paziente sia maggiore quantitativamente e qualitativamente, vale a dire per quanto la capacità del paziente di tollerare il ridimensionamento del suo nucleo narcisistico onnipotente siano migliori. Insomma, il Qoelet si presenta come una formidabile sfida umana e professionale a trovare un senso ed un significato alle nostre vite, di uomini, di curanti, di sofferenti. 

Bibliografia

H. Searles, Lo schizofrenico e la morte, in Scritti sulla schizofrenia, Boringhieri 1977.

Libro di Qoelet, Bibbia CEI, Libreria Editrice Vaticana, 2008. 

S. Freud, Analisi terminabile e analisi interminabile, OSF, Boringhieri, 1937.

S. Freud, La perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi, OSF, Boringhieri, 1924.

S. Freud, Lutto e Melanconia, OSF, Boringhieri, 1915.

S. Freud, Nevrosi e psicosi, OSF, Boringhieri, 1923.

S. Freud, Perché la Guerra?, OSF, Boringhieri, 1932.

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