“Quando l’acqua scende a valle”, “il tempo della corrosione”

 

Ciliegi sul far della sera / anche quest’oggi / è diventato ieri
Hiroshige/Issa 

 

Quando l’acqua scende, imperiosa e incessante lungo i fiumi, anche le pietre più dure, che sembrano a prima vista resisterle, lentamente si deformano e si corrodono, assumendo nuove forme e nuove figure, a volte splendide, altre mostruose. È il mondo della corrosione, che si fa strada. Anche la realtà (persino la più ovvia) e, soprattutto, la sua percezione e l’idea che ne abbiamo sembrano sottoposte alla stessa trasformazione, che ci ricorda che siamo tutti in permanente mutazione. Non sono, però, solo la natura e le cose materiali, che costruiscono il nostro quotidiano, ad essere esposte alla corrosione (a volte alla “corruzione”) del tempo, ma anche la nostra stessa anima, smarrita e – come diceva in punto di morte l’imperatore Adriano – vagabonda e languida.  

«Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora ti appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli.»  (Historia Augusta, Vita di Adriano, XXV, 9) 

Ma che cosa è allora la natura che ci circonda e di quale sostanza è fatta la nostra anima? La realtà, infatti, che appare al primo colpo d’occhio sempre la stessa, immutabile e ferma di fronte a noi, si sta in verità lentamente corrodendo. Se vi è infatti una caratteristica fondamentale del nostro tempo, questa sta proprio in questa progressiva e inesorabile corrosione. L’acqua che scende incessante è anche il flusso indifferenziato e soprattutto continuo delle informazioni, di quel rumore informativo, che fa oramai da involucro sonoro, dandoci la falsa sensazione di conoscere, di partecipare e di dominare di più le cose del mondo, divenute certamente più vicine allo schermo dei nostri visori mediatici ma non più vicine alla nostra esperienza emozionale. 

La percezione della realtà assomiglia a quei cerchi concentrici che si formano quando gettiamo un sasso su di uno specchio d’acqua. Più evidenti quelli vicini all’impatto, più sbiaditi, quasi confusi con l’acqua, quelli lontani. Il nostro mondo è come se volesse cancellare quelle differenze dando alle realtà vicine e lontane la stessa presenza, la stessa consistenza, la stessa importanza. In questo progetto di appiattimento tra vicino e lontano, tra notizie di valore diverso, gli eventi della vita non divengono più sensibili e più governabili, ma solo più inesorabili e indifferenti. Se muta la percezione della realtà muta progressivamente anche l’idea che abbiamo di noi stessi e delle cose che ci circondano sino al punto da non poterle più giudicare, collocare su di una scala di valore, allontanandole dalla sfera della nostra esperienza emotiva.  

Non credo si possa oramai più parlare di realtà, come se fosse unica. Essa è infatti molteplice, capace in questo processo senza fine di modificarsi all’infinito. Ma di quante realtà siamo circondati? E con quante di queste dobbiamo fare quotidianamente i conti? Per semplicità potremo dire che le realtà in gioco, già frutto di quella corrosione silenziosa ma inesorabile, di cui parlavo, sono almeno tre. Vi è certamente ancora una realtà delle piccole cose, del nostro mondo domestico, che cerchiamo di salvare a tutti i costi di fronte al pericolo della sua deformazione. Una realtà che ancora ci consente di governarla, di sentirci in qualche modo “padroni”. Come non comprendere il tentativo di sopravvivenza, che molti di noi hanno tentato in quella sorta di ritiro nel privato e nell’individuale, caratteristico dello stile di vita di questi ultimi decenni. Un vero e proprio tentativo di protezione di un’area della esperienza e della sensibilità, che ha fatto rinascere dopo le stagioni dell’impegno collettivo e delle grandi idee, il bisogno di ritrovarsi a “casa”, di ridare significato alla dimensione politica, sociale, ecologica del “piccolo”. «Piccolo è bello» – si diceva nel decennio scorso. Era in fondo un modo per riconquistarsi la vita con i suoi confini e i suoi punti di contatto, proprio quando il mondo esterno si faceva più invadente, omogeneo e a volte pericoloso.  

Accanto a questa esperienza protetta, quasi a farne una riserva indiana, vi è poi la realtà del “grande mondo”, quella dei notiziari televisivi, delle magniloquenti e vuote parole dei potenti, degli orrori che oramai ci lasciano spesso indifferenti, come se quel mondo grande con il suo ininterrotto flusso di notizie in presa diretta, che avrebbe potuto rendercelo più famigliare, in verità non ci appartenesse più. A complicare le cose vi è poi il crescere tentacolare di quella realtà virtuale, che esiste solo nella sua costruzione per immagini e nella sua fugace vita. Come trovare un ordine al caos, a volte persino creativo, prodotto da questa sovrapposizione di realtà, che è poi anche spesso generatrice di confusione di identità per ognuno di noi? Ci si può allora chiedere perché qualcuno oramai “stacchi la spina” di fronte al mondo che cambia e cerchi altrove? Staccare la spina può significare interrompere non il rapporto con il mondo o gli altri uomini ma solo con il frastuono senza senso che confonde, inebria, crea il “giardino delle vanità”. Vuol dire provare a ristabilire un contatto dapprima con se stessi e poi tra se stessi e gli altri. Un rapporto, che si è progressivamente corroso nello scintillio di un mondo troppo spesso fattosi “luna park”.  

«Non avete mai pensato di sparire almeno per un momento?» così mi ha chiesto un amico appena tornato da un lungo viaggio in barca a vela attorno al mondo. Sparire è per l’uomo parola abitata da due inquilini, il destino e la libertà. Se appare come destino è parola terribile, evoca inquietanti presagi per tutti gli uomini, che conoscono la malattia, la disperazione, lo smarrimento della mente o il tempo del morire; se invece sorge come figlia della libertà è un viaggio con se stessi. Come dare torto a chi cerca di ritrovare un ordine o, detto in altro modo, di ritrovare un altro centro alla vita. Vivere la disseminazione della realtà senza centro porta inevitabilmente allo smarrimento della percezione di noi stessi oppure a quella indifferenza da “anime morte”, per cui cinicamente è vero ciò che funziona ed è immediatamente utile, il resto è il superfluo.  

Un centro di se stessi e della realtà da ritrovare nella domanda di spiritualità, di interiorità o nella difesa ad oltranza della propria privatezza. Come non dare ragione, accanto alla spinta alla solidarietà, a queste strategie, che provano a ritardare almeno in parte la corrosione di una realtà, che sembrava certa e intangibile sino a poche generazioni fa, proprio come i grandi sassi dei nostri fiumi in cui cerchiamo refrigerio alla grande calura di questi giorni. E come non sorridere al contrario di fronte a chi ancora sogna le grandi idee, senza accorgersi, che intanto l’acqua continua a scendere tumultuosa a valle. Un’illusione, che ci obbliga a non perdere di vista ciò che accade di fronte a noi, come se distrarsi significasse perdere l’occasione di partecipare, per dirla con Karl Kraus, agli «ultimi (o ai primi) giorni della umanità». 

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