«Uccidere un serpente è come possedere un serpente»

Intervista a Silvia Pelizzari su Joan Didion 

Ho conosciuto Silvia Pelizzari su quel social che quando ci siamo conosciuti io e lei si chiamava ancora Twitter e ora – perché Elon, perché? – si chiama X. Sono diventato un suo follower, un suo fan e sono pure andato a vedere dal vivo a Milano una sua chiacchierata con Laura Pezzino – argomento: Joan Didion.  

Ma veniamo al punto… diciamo che se è successo che io e Silvia ci siamo conosciuti, la responsabilità è tutta da imputare a Joan Didion. Che poi, a ben vedere, è anche la ragione del fatto che oggi, sabato 2 dicembre 2023 io mi trovi con Silvia in un bar di Milano, vicino all’imponente edificio della Fondazione Feltrinelli, con un registratore sul bancone a far compagnia ai nostri quattro gomiti e a due caffè.  

Nell’intervista che segue tutto quanto dovrebbe diventare più chiaro… per ora vi dico solo che Silvia Pelizzari scrive di libri ed è autrice di podcast e che insieme ci siamo posti l’obiettivo di parlare, a poco meno di due anni dalla sua scomparsa (23 dicembre 2021) e a tre giorni dal suo compleanno (5 dicembre) di una delle scrittrici più amate dai lettori, più stimate dai colleghi e più influenti del nostro tempo. 

 

Silvia, vorrei partire con una difficile: scegli tre canzoni che ti vengono in mente se pensi a Joan Didion.  

In realtà i libri di Joan Didion sono pieni di musica, pieni zeppi, quindi non è una domanda difficile, anzi, sarà difficile sceglierne solo tre.  

La prima che mi viene in mente è Light my fire dei Doors. Joan Didion era una grandissima fan dei Doors e di Jim Morrison. Ha dedicato a Morrison anche un pezzo molto bello nel suo libro The White Album, un pezzo che racconta di quella volta in cui andò una sera in uno studio di registrazione di Sunset Boulevard ad assistere alla registrazione del terzo album dei Doors, in cui Morrison però non arrivava mai e sembrava scomparso. Morrison le piaceva molto anche come personaggio.  

La seconda è una canzone di Bob Dylan, ovvero Chimes of Freedom. Mi viene in mente perché nel settembre del 2022 c’è stata una commemorazione pubblica, una sorta di funerale popolare per Joan Didion, a meno di un anno dalla sua scomparsa, nella cattedrale di Saint John the Divine, un edificio gigantesco che si trova a New York su Amsterdam Avenue e che lei frequentava. In quella chiesa si è sposata sua figlia Quintana e lì sono sepolti sua madre, suo marito e sua figlia, e ora anche lei. Durante quella celebrazione a un certo punto sul palco è salita Patti Smith e ha suonato solo con l’accompagnamento della chitarra di Tony Shanahan proprio Chimes of Freedom di Dylan. Ricordo che di tutta la commemorazione, quello è stato forse il momento più toccante. C’era questo riverbero, questa eco dovuta alle dimensioni della cattedrale che mi sono rimasti impressi. 

Per la terza ce ne sarebbero due tra le quali non so decidermi: la prima è Do you wanna dance di Cliff Richard and The Shadows, che è una canzone che lei cita spesso in diversi suoi libri, perché è una canzone che ascoltava tantissimo nella sua casa a Malibu, e l’altra è Hotel California degli Eagles che viene molto citata non mi ricordo se nell’Anno del pensiero magico o in Blue Nights, ma ovviamente, ecco, la California è importantissima, non solo perché lei è nata lì, ma proprio perché ha influenzato tutta la sua visione, la sua scrittura, il suo modo di vedere le cose.  

Le lasciamo tutte e due?  

Direi! Senti, e cosa mi dici invece del serpente a sonagli?  

Didion era terrorizzata dai serpenti in generale e soprattutto da quelli a sonagli. Eppure, qualsiasi cosa abbia scritto è costellata di serpenti, reali e simbolici. È uscito un articolo qualche tempo fa sul Time che elenca tutte le volte in cui nei suoi libri sono citati i serpenti, ed è una lista abbastanza lunga. Ovviamente c’è il serpente più noto che è quello che campeggia sulla copertina originale di un romanzo di Didion che in italiano è stato tradotto con il titolo Prendila così, un libro del 1970 da cui è stato tratto un film scritto da Didion stessa. Quintana, sua figlia, chiamava quel libro proprio «Il libro del serpente».  

Questa questione del serpente, che sembra una comune e banale fobia, è in realtà qualcosa di molto interessante… era certamente una paura reale, ma era anche una paura simbolica, quasi ancestrale. Didion veniva dalla California, è nata a Sacramento da una famiglia di pionieri e suo nonno l’aveva educata a quello che lui chiamava «Il Codice dell’Ovest» - una regola non scritta che imponeva di uccidere qualsiasi serpente si trovasse sulla propria strada, perché in questo modo si impediva che l’animale spaventasse qualcun altro.  

Didion questo codice però lo ha infranto. C’è una storia molto carina a riguardo: da ragazzina andava spesso a leggere fuori dal cimitero di Matthew Kilgore, dove sono sepolti i suoi antenati, stiamo parlando di bis-bis-bisnonni. Andava lì con la sua macchina, si sedeva fuori, sul cofano, e leggeva. Un giorno, mentre è seduta all’aperto con il suo libro, vede un serpente a sonagli scomparire dietro una pietra rotta – lo racconta in Da dove vengo, che è un po’ la sua autobiografia, anche se in realtà a me sembra più una biografia della California, più che la sua – risale in macchina e da quel momento, nelle sue sedute di lettura al cimitero, non scenderà mai più dall’automobile. 

Anche nel documentario uscito su Netflix nel 2017 il cui regista è Griffin Dunne, il nipote di suo marito, a un certo punto Didion dice proprio a Griffin (che è anche colui che la intervista), cambiando totalmente discorso: «Tu hai dei serpenti in casa?» e lui risponde: «Beh, no, li uccido con il rastrello» e lei risponde «Uccidere un serpente è come possedere un serpente».  

Tra l’altro il serpente è un’immagine biblica, è il male, la tentazione… e Didion ha combattuto il serpente nella sua contingenza quotidiana. Secondo me la cosa interessante di questo suo rapporto con il serpente è come sia stata capace di esorcizzare la sua paura e trasformarla in qualcos’altro. Simbolicamente il serpente nel momento storico che stava vivendo Didion era la corruzione, era l’abuso di potere. Lei ha scritto tantissimo di politica, e in qualche modo non è scappata dal serpente della sua quotidianità, ma l’ha fissato negli occhi e ha cercato di prenderlo a rastrellate come poteva, ovvero con la scrittura.  

Un’altra grande scrittrice del nostro tempo, Zadie Smith, alcuni giorni dopo la morte di Didion ha scritto un articolo sul New Yorker da cui ti cito «È una peculiarità dell’opera di Joan Didion, che le sue formulazioni più ironiche siano ora lette come sincere, e le sue provocazioni più sincere prese con le pinze. […] Il pensiero magico è un disordine del pensiero. Vede la causalità dove non c’è, confonde l’emozione privata con la realtà generale, impone […] una linea narrativa su immagini disparate. Ma a parte l’estremo del lutto, non era una condizione di cui generalmente soffriva. La parola d’ordine di Didion era parola d’ordine. Era eccezionalmente attenta alle parole o alle frasi che usiamo per esprimere i nostri obiettivi o le nostre convinzioni fondamentali». Qui Smith si riferisce a un libro L’anno del pensiero magico, di cui vorrei parlare con te successivamente. Prima ti chiedo qualcosa su questa questione sollevata da Smith del come interpretiamo oggi alcune espressioni, alcune frasi di Didion e anche su questa sua attenzione alle parole.  

Lo scrittore preferito di Joan Didion era Hemingway, cosa che la dice lunga sull’importanza che Didion dava alla scelta delle parole e soprattutto alla sua attenzione per lo stile e per il ritmo. C’è un bel saggio in Perché scrivo, in cui lei analizza il primo paragrafo di Addio alle armi, la scelta delle parole, delle parole con un determinato numero di sillabe, del modo in cui rileggendo queste risuonano. Lo stile di Didion e il ritmo delle sue frasi arrivano ancora prima di quello che lei scrive. Ovviamente, non sto dicendo che per lei non fosse importante il contenuto, ma diciamo che stile e forma erano almeno altrettanto importanti. In Blue Nights a un certo punto riporta un appunto che trova in un quaderno e che aveva scritto mentre raccoglieva idee per un romanzo a cui stava lavorando, Il suo ultimo desiderio. È un romanzo degli anni ‘90, per me il meno riuscito, e l’appunto riporta delle frasi, ma i nomi delle persone e le cose che fanno sono sostituite da “xxxxx”. Frasi intere piene di “xxxxx”. E lei racconta di come a quei tempi quello che lei faceva non era tanto «scrivere» quanto «abbozzare un ritmo», cioè lasciava che fosse il ritmo a suggerirle cosa stava scrivendo. Una cosa abbastanza bizzarra. 

Ricordo il pezzo di Smith che citi perché è uscito il giorno dopo la morte di Didion, e lo ricordo anche perché a una prima lettura non avevo capito del tutto che cosa Smith volesse dire in alcune sue parti. Ricordo però una cosa molto bella che lei scrisse ed era che Didion non parlava tanto delle sue emozioni e non esprimeva troppo i suoi punti di vista, ma «interrogava entrambe le cose». Questo è molto vero. Smith poi parla anche dell’autorità del tono di Didion, soprattutto quello dei primi anni, i Cinquanta e i Sessanta, nei quali era una giornalista che si occupava di politica in un mondo fatto di maschi. Tu leggi quella Didion e ti accorgi che non tentenna mai, non sbava mai. Usa sempre le parole giuste, perfette… Mi viene in mente quella frase citatissima di Virginia Woolf che dice: «Amo le frasi che non si sposterebbero di un millimetro neanche se le traversasse un esercito». La sensazione che si ha leggendo Joan Didion è questa, e cioè che ogni parola sia lì per un motivo, ma non solo che le parole siano lì per un motivo, che il ritmo delle frasi e delle parole siano esattamente quello che lei voleva. Per questo ogni tanto mi interrogo sulla difficoltà di tradurre autrici e autori come lei. Il rischio di usare una parola con una leggera sfumatura diversa è talmente alto che mi viene l’affanno a pensarci. 

Tornando a quanto diceva Smith, alcune sue frasi vengono spesso riprese e decontestualizzate perché suonano bene. Io però non la vedo una cosa così negativa, a dire il vero. Io credo che sia quello che deve fare la letteratura: parlare a persone diverse a seconda di quello che stanno vivendo quelle persone, e quindi la frase di Didion che Zadie Smith cita, «Noi ci raccontiamo delle storie per vivere» che è una frase che ovviamente Joan Didion usò in maniera non proprio positiva in quel momento, intendendo quelle “storie” come delle verità edulcorate, modificate, che si adattano a ciò che serve al nostro cervello per elaborare il caos che abbiamo attorno, io non la vedo una cosa così malvagia se, chessò, una persona che si avvicina alla letteratura e che ama le storie inventate la interpreti invece come “la letteratura ci serve per vivere”. Da un lato c’è questa sorta di banalizzazione, di frase alla Tumblr o da scrivere sulla Smemoranda, dall’altro è vero che Didion ci ha lasciato delle frasi che possono cambiare pelle… mi viene da dire, proprio come fanno i serpenti. 

Abbiamo iniziato questa intervista in medias res, dando forse per scontato alcune cose. Vorrei a questo punto fare un po’ di ordine e chiederti qualcosa sulla produzione di Didion. Ti va magari di citare qualche opera che tu reputi più significativa – sia tra i saggi che tra i romanzi – partendo dagli esordi? 

A proposito di saggi e romanzi… qualcuno una volta mi ha detto, mi sembra sia stata Claudia Durastanti, che il mondo dei lettori e delle lettrici di Didion si divide in due grandi categorie: chi la ama di più come romanziera e chi la ama di più come saggista. Io, devo dire la verità, la amo di più come romanziera. Ma forse dipende anche un po’ da una mia predisposizione personale alla fiction, non so.  

Ho iniziato a leggere Joan Didion una decina d’anni fa, per colpa o per merito di Giulio Passerini, amico e Ufficio Stampa della Casa Editrice E/O, che aveva pubblicato i due romanzi più famosi: Diglielo da parte mia e Democracy. Io non sapevo neanche chi fosse, Joan Didion, prima che Giulio mi regalasse un suo libro. Beh, da quel momento ho avuto una folgorazione, me ne sono innamorata follemente. La cosa che mi interessa di Joan Didion e soprattutto che mi stupisce, è che nel mio rapporto con questa scrittrice il mio gusto cambia continuamente. Ti faccio un esempio e parto così con questa mia analisi personale della sua produzione: la prima cosa che lei ha scritto, Run River, il suo primo romanzo, l’ha scritto da giovane. Didion a quel tempo si trovava a New York perché aveva vinto una sorta di borsa di studio-lavoro da Vogue e dalla sua Sacramento si era trasferita per questa ragione nella Grande Mela, dove poi è rimasta tantissimi anni. Nelle sue serate post-lavorative si dedicava a Run River, volendo scrivere un romanzo che fosse la storia di una coppia newyorkese. In realtà, il risultato è stato che ha scritto la storia di una coppia di Sacramento. Run River da tutti è considerato un libro molto acerbo, e lo è, nel senso che è un romanzo scritto a vent’anni, e la prima volta che l’ho letto mi aveva un po’ annoiata. Anni dopo l’ho ripreso in mano e l’ho divorato. Nel frattempo avevo letto quasi tutto quello che aveva scritto e in Run River ho trovato cose nuove, che a una prima lettura non avevo trovato, per esempio che in quella storia ci sono già tutti i temi che avrebbe scandagliato dopo, nei suoi saggi più famosi, ma anche nei suoi romanzi e perfino nei memoir. 

A proposito dei saggi, sicuramente Didion si è imposta con questi, con due antologie: Verso Betlemme e successivamente The White Album. La prima racconta gli anni Sessanta, sono suoi articoli giornalistici scritti negli anni Sessanta. The White Album, guarda più agli anni Settanta. Da questo libro a mio avviso esce fuori il suo talento, esce fuori il suo cinismo, la sua capacità di osservare le cose in modo diverso, da un punto di vista laterale. Didion in quel periodo ha raccontato le comunità hippie di San Francisco e l’America nella fase che tutti ritenevano fosse la fase espansionistica, la fase della grande crescita, mentre lei, giustamente, in quell’America vedeva già l’inizio della caduta, la fine delle cose, lo strappo che non si poteva più ricucire.  

Poi sono arrivati i grandi romanzi, e quindi Prendila così, del 1970, e Diglielo da parte mia e Democracy che sono secondo me due capolavori. Anche in questi, chiaramente, lei inserisce le sue passioni e tantissimi dei temi che avrebbe affrontato anche come giornalista.  

Proseguendo negli anni c’è tutta una fase più politica, e quindi altre raccolte di saggi, Miami e Nel paese del Re pescatore e un libro che in Italia non è ancora stato tradotto e non credo che verrà tradotto perché è molto piccolo e, diciamo, di settore, che è Salvador, che parla della sua esperienza di inviata a Salvador nel momento della Guerra Civile.  

Infine, c’è ovviamente la fase che potremmo chiamare memorialistica, (preceduta, in realtà, dal suo ultimo romanzo Il suo ultimo desiderio, tra tutti forse il più debole e dimenticabile) de L’anno del pensiero magico e Blue Nights.

Ecco, prima di soffermarci su questi ultimi due, che, affrontando la tematica del lutto, sono i testi più vicini a quell’idea di letteratura e medicina sulla quale mi concentro da anni alla Fondazione, volevo tornare sul documentario di Netflix, The center will not hold. Mi chiedevo se secondo te possiamo pensare di consigliarlo a qualcuno che non ha mai letto Didion e volesse conoscerla? 

Da un punto di vista strettamente cinematografico non so nemmeno se possiamo definirlo un documentario, mi pare più una lunga intervista. Sicuramente è utile, sia per conoscere Joan Didion e guardare il suo percorso cronologico in relazione a ciò che accadeva negli Stati Uniti in quegli anni, sia per scoprire piccole chicche e avere accesso a documenti e racconti della sua vita privata. La cosa che più mi piace è che mostra Didion in un momento di grande vulnerabilità e deperimento. Ma anche che sia fatta nell’ambiente della sua casa di New York nell’Upper East Side e che l’intervista sia fatta da suo nipote e che quindi la chiacchierata abbia toni informali, spesso teneri. Tutto mette in luce non solo la sua grandezza di pensiero e il suo modo di vedere e raccontare le cose ma anche le sue deviazioni, le sue manie. In quel momento, nel 2017, quando è stato girato, Didion è già affetta dal morbo di Parkinson. La si vede tremare e muoversi continuamente e si vedono queste grandi mani che occupano lo spazio in un modo stranissimo e importante. In questo senso mi sembra che riesca bene l’operazione: mostrare chi è Joan Didion nel suo ambiente familiare e domestico ma soprattutto mostrare il modo in cui funziona il suo pensiero. 

A questo punto, volevo farti parlare di quello che io definirei il dittico memorialistico di Joan Didion, L’anno del pensiero magico e Blue Nights.  

Sì, li puoi certamente vedere come un dittico ma anche come due libri autonomi. Prima, però, è importante dire qualcosa di John Gregory Dunne. Dunne, il marito di Didion, era un marito molto amato, accanto a lui Didion ha trascorso praticamente tutta quella vita di cui abbiamo parlato fino ad ora. La morte improvvisa di Dunne è la protagonista de L’anno del pensiero magico. I due erano una coppia simbiotica, facevano tutto insieme e… scrivevano “insieme” – in pratica, erano l’uno il correttore di bozze dell’altra. Didion diceva, riferendosi alle sceneggiature dei film che insieme al marito ha firmato, che non si riusciva a capire chi avesse scritto cosa, perché questa loro simbiosi di coppia la si ritrovava anche e soprattutto in quello che scrivevano e nelle varie versioni che si scambiavano ed editavano. Una sorta di storia d’amore che passava anche attraverso le parole. 

John Gregory Dunne muore a causa di un infarto improvviso la sera del 30 dicembre 2003, al tavolo della loro casa nell’Upper East Side. Joan cucina, John è seduto al tavolo quando d’improvviso si accascia e non si riprende più. I due, in quel periodo, tra l’altro, entravano e uscivano dall’ospedale perché Quintana Roo, loro figlia adottiva, era in coma da cinque giorni in seguito a una grave infezione polmonare. 

L’anno del pensiero magico – qui il richiamo al titolo – parla proprio di ciò che ha fatto seguito al 30 dicembre del 2003, tutto quello che Didion ha dovuto sopportare e affrontare e il modo in cui l’ha fatto, le varie fasi che ha attraversato. Questo libro viene visto come un libro sul lutto e ovviamente lo è, però c’è una sfumatura più sottile. Il lutto è in qualche modo una risposta attiva al dolore. Elaborare il lutto significa assorbirlo, capirlo, affrontarlo. Didion nel suo libro parla del lutto ma parla soprattutto del dolore, del dolore che ti paralizza, che ti fa uscire di testa. Lei dice che aveva già conosciuto il dolore quando sono morti i suoi genitori, ma che in qualche modo è stata una cosa che si poteva prevedere e che era riuscita ad affrontare, una cosa inevitabile a cui era preparata, per quanto il dolore fosse comunque forte. Quello che invece racconta ne L’anno del pensiero magico – libro che viene oggi anche consigliato alle persone che perdono un compagno, un marito, una moglie, dei figli – non è solo la sua vulnerabilità, ma sono anche le cose assurde che lei ha pensato in quell’anno di enorme dolore e sconvolgimento seguito alla perdita improvvisa del marito.  

Una delle cose più interessanti è il senso di incredulità che Didion riporta nelle sue pagine. C’è un pezzo molto bello nel libro quando la sera, il giorno dopo in cui John muore, la loro agente viene a casa loro e si occupa di chiamare i giornali per i necrologi, e Joan a un certo punto scrive una cosa tipo: «Mi chiesi che ora fosse in California, feci i conti per capire se a Los Angeles era già successo, se là non era ancora accaduta e io potessi in qualche modo fermarla». Poi Didion, sempre con questo “pensiero magico” a un certo punto crede che lui possa tornare, motivo per cui non autorizza la donazione degli organi, non butta via le sue scarpe, perché «Come poteva tornare se non aveva le scarpe? Come poteva tornare se non aveva gli organi?». 

E poi Didion analizza anche altre fasi di quell’anno. Per esempio, lei da scrittrice a un certo punto si incaponisce nel riportare l’esatta sequenza delle cose successe, si incaponisce sul fatto che una frase che il marito ha detto, lei non riesca a ricordarsi quando gliel’abbia detta, se quella sera tornando dall’ospedale o la sera precedente. Inoltre, inizia a fare una ricerca: il libro è pieno di medicine, pieno di termini scientifici, lei va proprio a leggere articoli scientifici, un sacco di letteratura di auto aiuto, anche. Non solo, si fa dare i referti dell’autopsia e i registri dei portieri del suo palazzo. Tutto questo perché crede che studiare e leggere la aiuti. E in un certo senso, se ci pensiamo, è vero, conoscere le cose ci serve anche a controllarle, non solo a capirle, ma proprio ad avere un controllo su di loro. L’anno del pensiero magico è un libro dove l’ossessione di Didion per la parola, per i fatti, emerge in maniera evidente.  

Tornando alla questione del dittico… certo che si può leggere solo L’anno del pensiero magico o si può leggere solo Blue Nights, ma leggerli entrambi, secondo me, crea un quadro di riferimento. I temi de L’anno del pensiero magico sono il lutto e il dolore, come affrontiamo il dolore, come non lo affrontiamo, come riusciamo a sopravvivere alla perdita di qualcuno che amiamo. E questo dolore in qualche modo passa il testimone e si trasforma nel successivo libro, Blue Nights 

Blue Nights, scritto e pubblicato alcuni anni dopo, nel 2011, è libro nel quale Didion parla della perdita della figlia Quintana (morta nell’agosto del 2005 dopo che, in realtà non si riprese mai del tutto, dopo il lungo ricovero iniziato pochi giorni prima della morte del padre), ma, a ben vedere, è un libro anche e soprattutto sulla paura di invecchiare, sull’abbandono e sulle paure in generale. Sulle paure che aveva avuto Quintana e sulle paure che aveva avuto e ha nel momento presente Joan. Didion scrive Blue Nights quando è già anziana, quando è ormai una donna sola, una donna che deve affrontare solo il pensiero della propria morte. E anche qui, come fece in Verso Betlemme, Didion prende il contingente, il quotidiano, e lo mescola alla letteratura, alla scienza, agli aspetti clinici e si mette a nudo. Fa capire al lettore quanto dice all’inizio de L’Anno del pensiero magico: «La vita cambia in fretta, la vita cambia in un istante», e lo fa in un modo nuovo: partendo dalla vulnerabilità, dalla follia, del senso di perdita e invecchiamento, dal centro che non ha più retto. Cerca – ma non ci riesce del tutto, ed è anche questo il bello del libro – di fare quello che ha fatto nei suoi saggi. In questi, infatti, lei voleva raccontare l’America, un’America che, a differenza del pensiero comune, si stava già disgregando, era già nella fase di declino e per la quale non c’era già più niente che si poteva fare, nessuno strappo era già più ricucibile 

Con L’anno del pensiero magico e con Blue Nights fa lo stesso: “sbobina”, “srotola” tutto il suo dolore e tutto il caos per provare a mettere ordine… ma al caos non si può dare ordine, esattamente come l’America ormai distrutta non poteva più tornare come prima. 

Ha senso, secondo te, consigliare questi libri a qualcuna o qualcuno che ha vissuto un lutto come quello di Didion, la perdita inattesa di un marito o di un figlio?  

Io non credo nel potere catartico della letteratura. Però ci sono degli episodi e delle fasi della mia vita che sono costellate di libri che hanno fatto la differenza. A diciott’anni ho avuto quello che viene comunemente indicato come esaurimento nervoso. Quello è un anno della mia vita che ricordo poco, anche a causa dei farmaci che hanno influito sulla mia memoria. Tuttavia, il mio psichiatra, quello da cui i miei genitori mi portarono, mi consigliò di leggere un libro di Garcia Marquez (fa ridere pensare che la mia passione per il Sudamerica nacque forse proprio da lì), L’amore ai tempi del colera. Questo fu un libro che in quel momento mi parlava, indubbiamente, per tutta una serie di motivi. Lo psichiatra aveva capito quale era l’origine del mio malessere e del mio dolore e in qualche modo, quel suo suggerimento mi ha aiutata.  

Ma mi ricollego a Didion e a L’anno del pensiero magico… Lei nel primo anno senza John affronta tutta una serie di cose per la prima volta senza di lui. In maniera molto umana lei non vuole che quell’anno finisca, non vuole che alla fine dei primi trecentosessantacinque giorni non ci sia più il primo Capodanno senza John, il primo compleanno di Quintana senza John, perché gli anni successivi sarebbero stati in qualche modo tutti identici tra loro, tutti uguali nella loro “normalità”, mentre quel primo anno tutto era – appunto – magico, anche se in un senso per niente romantico. Ora, è ovvio che qui non stiamo mettendo a paragone il dolore che si può provare per il lutto improvviso di una persona che amiamo e altre perdite, però a me, nel mio piccolo, questo libro mi ha aiutata in un momento di strappo, di perdita sentimentale, di dolore e consapevolezza fortissimi, quando provavo a rimettere insieme i pezzi. E ricordo di aver pensato una cosa, una frase, di cui parla anche Didion ne L’anno del pensiero magico e me lo andai a rileggere. Di nuovo, i suoi libri secondo me parlano in modo diverso a seconda di ciò che stiamo vivendo, come deve fare la letteratura, ricordandoci anche in che modo – in che modi – possiamo guardare le cose. 

C’è un verso di Emily Dickinson che io amo molto. Dice «Tell all the truth but tell it slant», ecco, mi sembra che sia esattamente quello che fa Didion in ogni cosa che scrive. Uccidere un serpente, del resto, equivale ad avere un serpente. 

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