Comunicazione etica e cultura dell’Altro

Il becco del pellicano

Quasi 25 anni or sono creammo la Fondazione Sasso Corbaro per le Medical Humanities, perché credevamo fortemente che la qualità dello stile della comunicazione e delle cure messe in atto al letto dell’ammalato lo aiutassero a superare meglio le difficoltà conseguenti la sua infermità, soprattutto nei momenti tragici della comunicazione di diagnosi e prognosi particolarmente preoccupanti.  

A quei tempi non esistevano ancora ricerche scientifiche affidabili che giustificassero l’ipotesi di una relazione diretta fra positività e miglioramento della situazione patologica (non solo della sintomatologia) nella relazione mente-corpo, ma eravamo convinti che la gentilezza di per sé e la relazione eticamente rispettosa fra i curanti e gli ammalati fosse non soltanto doverosa, ma persino utile per affrontare con più efficacia i dolori, i malesseri e il “mal di vita” dovuti alle terapie invasive e intensive.  

Nel lontano 1973 Anne Hudson Jones e Ronald Carson alla Texas Medical Branch di Galveston, che visitammo agli inizi degli anni duemila, si dedicarono con altri colleghi a insegnare ai loro studenti e ai giovani medici sia come fosse vissuta la malattia da parte di chi ne era stato sorpreso sia cosa fosse concretamente una malattia: i corsi universitari erano soprattutto orientati a chi non l’avesse ancora conosciuta personalmente o attraverso le sofferenze di una persona cara. Veniva proposto lo studio e la discussione di testi letterari attorno alle conseguenze di un trauma, di un lutto o di una disabilità scritti da artisti di genio, una metodologia che nei decenni venne completata dalla medicina narrativa. In tale contesto, il percorso della nostra fondazione si concentrò soprattutto sulla narrazione cinematografica che ci permise di affrontare in modo più collettivo la tematica dei dilemmi etici nelle prese di decisione clinica nell’inizio e fine-vita, nell’ambito della donazione d’organi, degli stati vegetativi persistenti o della demenza.  

Letteratura, cinema, poesia, teatro, pittura o musica, anche perché la nostra convinzione si basava sulla tradizione che la cultura dei curanti potesse aiutare la comunicazione con gli ammalati e a renderli più consapevoli della loro condizione vulnerabile. Oggi, invece, tendiamo a pensare che prioritaria sia soprattutto la conoscenza rispettosa e l’accettazione delle diversità dell’Altro, soprattutto quando fragilizzato dalla povertà all’interno di una società benestante e certamente anche dalla disabilità mentale. Riteniamo, infatti, che determinante per la qualità di vita e, probabilmente per la prognosi dei nostri mali, non sarà soltanto la nostra cultura di curanti e le nostre conoscenze scientifiche nella relazione mente-corpo, ma quella esistenziale del nostro prossimo (l’Altro culturale di Marc Augé).  

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