Cura e intimità: toccare eticamente con tatto

Il becco del pellicano 

Quando ci si prende cura dei pazienti, sovente occorre toccarli per stabilire una dimensione relazionale che permetta un corretto agire terapeutico; ciò comporta un contatto che, necessariamente, deve avvenire eticamente con un certo qual tatto, con una modalità e uno stile particolarmente rispettosi per non violare l’intimità e, se del caso, la nudità del paziente: la cura deve essere favorita e non ostacolata vivendola come un’invasione di una proprietà, il corpo, che, di regola, non si vuole condividere, semmai soltanto all’interno della privatezza strettamente affettiva. 

Intimo significa anche vicino e il termine può riguardare le emozioni che nascono da un comportamento terapeutico quando il curante si trova a essere in sintonia con il suo paziente. Si può certo curare il corpo ammalato con distacco, applicando rigidi paradigmi uguali per tutti, ma si può fortunatamente anche prendersi cura del paziente entrando in dialogo con lui, con la sua individualità, in modo più umano e, in definitiva, con i valori eticamente fondamentali del rispetto e della dignità.  

In ospedale, se la persona è limitata a un dato biologico del suo corpo, l’intimità non può esistere e neppure una relazione etica coerente; d’altro canto, la “privacy” può essere definita come il controllo selettivo del sé, dove la persona rende più o meno permeabile la sua frontiera con l’altro, sviluppando anche un senso di individualità che definisce sé stessi. 

L’intimità viene spesso confusa con la dimensione sessuale-affettiva ed è un termine vissuto sovente dai curanti come ambiguo, preferendole parole come coinvolgimento, impegno, empatia. Inoltre, nello scambio terapeutico con i pazienti, la reticenza rispetto a un vissuto d’intimità provoca una certa “distanza emotiva” da parte dei curanti stessi, ritenuta necessaria per il loro benessere personale oltre che per rassicurare le persone ammalate. Per Martyn Evans e Jane Macnaughton, storici studiosi delle Medical Humanities, l’intimità clinica deve essere di tipo “freddo”, cioè basata sulla combinazione di una stretta prossimità fisica e percettiva con un necessario distacco psicologico, così da creare una “distanza di sicurezza” in termini emotivi fra curanti e pazienti: è possibile isolarla per un obiettivo concordato e quindi professionalmente corretto; naturalmente vi sono contesti clinici dove la freddezza non è di alcun aiuto, come con i bambini, in certi disturbi psicologici e nella riabilitazione delle disabilità. 

Confrontandoci talvolta con la nostra vulnerabilità materiale ed esistenziale, può capitare che il nostro senso del pudore e della dignità vengano meno e, allora, essi sono sospesi temporaneamente da una sorta di finzione morale. 

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