Riflessioni sui dilemmi posti dal suicidio assistito

Il becco del pellicano 

La medicina occidentale e la politica di alcuni Paesi a noi confinanti continuano a essere particolarmente interessati al tema del morire, del cosiddetto “morire con dignità”, dell’eutanasia e il poter morire quando lo si desidera. Le ragioni principali di questo interessamento alle modalità del fine-vita personale e dei nostri cari sono dovute soprattutto al valore etico che si dà da tempo all’autodeterminazione delle persone e al fatto che le biotecnologie non hanno prolungato soltanto il nostro vivere, ma purtroppo anche il nostro morire. In Ticino sono stati conseguiti importanti risultati nel campo delle cure palliative, ma, nel contempo, non è diminuita la discussione, in parte controversa, sull’eutanasia attiva e il suicidio assistito. 

Il suicidio assistito è ammesso in Svizzera dal principio giuridico sancito dall’art. 115 del Codice Penale e i Cantoni non possono renderlo illecito, perché sarebbe una violazione del diritto federale. Non si tratta, in verità, di un diritto positivo, quindi di un “diritto-pretesa”, ma piuttosto di un “diritto-difesa”, nel senso che una persona capace di discernimento non può essere impedita a mettere a segno la propria intenzione suicidaria. Va inoltre rilevata l’assenza totale di delimitazione del campo d’applicazione: non è necessario un contesto medico o una malattia o una situazione di fine-vita, “basta” una sofferenza molto grave (ASSM) o, per altri (FMH), insopportabile (?). In altre parole, da noi, la giustizia rinuncia a perseguire colui/ei che assiste una terza persona se il movente dell’assistenza non è di tipo egoistico.  

Da un punto di vista giuridico anche l’Ente Ospedaliero Cantonale (EOC), in quanto ente pubblico, dovrebbe ammettere questa pratica; inoltre, vietarla totalmente, potrebbe sfavorire chi è economicamente più debole, chi avrebbe meno alternative per portare a termine le proprie volontà e aver garantita la propria autonomia. Una considerazione speciale riguarda il voler favorire con particolare insistenza il ritorno a casa del paziente, perché i suoi cari potrebbero non essere preparati ad assumersi il compito di assisterlo. Starebbe, quindi, al personale di cura ospedaliero fissare criteri molto rigidi e precisi per accogliere le richieste di suicidio assistito e trovare qualcuno, a titolo strettamente volontario, che si senta in grado di garantire i desideri del paziente, coinvolgendo delle figure sussidiarie, adeguatamente istruite, sostenute e supportate come quelle di un famigliare o del medico di famiglia. In ultima istanza, se questa soluzione risultasse inattuabile, si potrebbero coinvolgere le associazioni ufficiali di volontari (Exit, Dignitas), in quanto, verificato il rispetto dei criteri stabiliti da parte dei curanti ospedalieri, nessun rischio di arbitrarietà di giudizio potrebbe essere ancora opposto alla possibilità di affidare ad essi la legittima richiesta del paziente.  

Per il personale curante il carico emozionale dell’assistenza a un suicidio può essere molto gravoso e quindi la pratica deve essere gestita in modo interprofessionale con una collaborazione stretta fra medico/a e infermiere/a, non dimenticando che può essere causa di conflitti all’interno del gruppo dei curanti: i dilemmi etici non ben risolti possono essere particolarmente distruttivi nell’ambito relazionale. Inoltre, nella mentalità e nelle aspettative della popolazione, gli ospedali di cure acute come quelli dell’EOC sono vissuti come luoghi dove i pazienti son curati per vivere e non per morire.  

Da un punto di vista etico-organizzativo, la Commissione nazionale d’etica per la medicina umana (CNE) si limita a proporre per gli ospedali acuti il principio secondo cui «ogni struttura deve stabilire chiaramente se accordare o meno ai propri pazienti la possibilità del suicidio assistito». La Commissione di etica clinica dell’EOC (COMEC), ben 15 anni fa, aveva elaborato, in modo molto approfondito, un testo denominato “Progetto di documento di riflessione sul suicidio assistito negli ospedali dell’EOC”, raccomandando in particolare che «un’obiezione istituzionale totale al suicidio assistito non può essere ammessa per un ospedale pubblico, quando i pazienti non abbiano accesso ad altra alternativa al ricovero» e che, «se un rientro a domicilio non è assolutamente possibile, l’assistenza al suicidio potrebbe, a determinate condizioni, avvenire in ospedale», perché «l’assistenza al suicidio può essere considerata come l’ultimo gesto del personale curante che non abbandona il paziente ma lo accompagna fino alla morte richiesta». Il Consiglio di Amministrazione dell’EOC di quei tempi non aveva approvato il documento, consigliando di coinvolgere la COMEC quando un rientro a domicilio non fosse stato possibile. 

Proprio in questi mesi, nel dibattito pubblico e politico francese, è diventato attuale il dilemma se il suicidio assistito debba essere sempre “accompagnato”, per esempio da associazioni volontarie o dai curanti del paziente, o se la persona interessata possa o “corra il rischio” di morire “sola”: in altre parole, ci sarebbe un conflitto di valori fra l’autonomia, da un lato, e la solidarietà e persino la fraternità o la sorellanza, dall’altro. In Svizzera, la “tensione etica” è legata invece alla controversia  fra le nuove direttive dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (ASSM), che estendono l’aiuto al suicidio anche al criterio di “sofferenza insopportabile” e la Federazione dei Medici Svizzeri (FMH) che vorrebbe permettere ai medici l’autorizzazione di assistere al suicidio desiderato di un paziente soltanto nella fase finale della vita: la ragione sarebbe legata al fatto che la nozione di “sofferenza insopportabile” sarebbe giuridicamente indeterminata e porterebbe molta incertezza per il corpo medico. 

A nostro avviso, l’accompagnamento delle persone in fine-vita non dovrebbe interrompersi proprio prima della loro morte, ma la nostra compassione dovrebbe prevalere, anche per evitare che l’agonia sia inutilmente e tragicamente più lunga, quando si rimane abbandonati, soli e tecnicamente incapaci. 

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